Kareeem Abdul-Jabbar: un gancio in mezzo al cielo

Iconico, a tratti ingiocabile, rimbalzista sul parquet e dentro la vita: con i suoi 38.387 punti in Nba resta una leggenda inarrivabile

Abdul - Jabbar dritto a canestro
Abdul - Jabbar dritto a canestro

Alcindor! Ferdinand Lewis Alcindor!”. La voce che si propaga lungo il corridoio della scuola arriva a infilarsi in aula, rimbalzando sulle pareti. La Power Memorial Academy, un edificio oggi mestamente dismesso, è una scuola cattolica per soli ragazzi, che punta molto sullo sport come detonatore di riscatto sociale. Qui si culla il sogno americano, senza dimenticare di impartire principi che dovranno restare inscalfibili. Non sanno, da queste parti, che il lunghissimo ragazzo di colore che si sta alzando dalla sedia è destinato a giocare un tiro mancino.

La liturgia laica di Ferdinand affonda nel culto della palla a spicchi. È nato nel ’47, a New York, da una famiglia che ne intravede subito le doti e le supporta. Al resto ci pensa un patrimonio genetico che lo fa assomigliare ad un albatros già all’età di sedici anni, quando stacca in scioltezza i compagni con tonnellate di centimetri in più. La sua gigantesca apertura alare e l'altezza da grattacielo umano (2 metri e 18 cm) sono le fondamenta che determineranno larga parte del suo successo. Alcindor ci prova, a deglutire la retorica americana, prima di capire che quello è un tiro destinato a sbattere sul ferro. “Il mio successo – dirà molti anni più tardi – non ha mai avuto niente a che fare con le pari opportunità offerte ai ragazzi di colore nelle scuole. È nato dal mio fisico e dal mio talento, tutto qua”.

Quello, di sicuro, è abbagliante. Gli scout sguinzagliati dalle maggiori franchigie del circuito sbavano come setter al ritorno del padrone. Nel 1969 Ferdinand Lewis Alcindor è la prima scelta del Draft. Nel frattempo gli Harlem Globetrotters – non esattamente una cricca di appassionati dopolavoristi – lo supplica: “Vieni in tour con noi, ti diamo 1 milione di dollari!”. Niente da fare. La sua esistenza cestistica sarà composta, del resto, da poche decisioni nette.

La prima stanza in affitto avrà le sembianze accoglienti del Winsconsin. Firma per i Milwaukee Bucks e, nel 1971, li conduce al primo e unico titolo della loro storia. Tiranneggia sul parquet chiunque gli sfiati intorno: indomito catalizzatore di rimbalzi, formidabile nelle stoppate, letale nel tiro. Alcindor è una sciagura per gli avversari e una manna per il suo team. Quel fisico imperioso con il quale trascina via gli oppositori e infrange canestri non è però il pezzo più pregiato della casa. La sua arma segreta risiede in un tiro incontrastabile.

Per capirlo davvero serve risalire ad una dissennata decisione della Ncaa. L’anno è il 1967 e il folle comunicato recita più o meno così: “Sono proibite le schiacciate a canestro per fare punti”. L’intento fondativo di una simile uscita è lampante. Limitare lo strapotere di Ferdinand, che aggirandosi con fare eccessivamente dominante per mezza America rischia di sterilizzare l’interesse per questo sport. La levata d’ingegno finisce tuttavia per trafiggere chi l’aveva maldestramente concepita.

La genesi del "Gancio cielo"

Alcindor resiste all’ingiustizia perfezionando un colpo inventato da George Mikan e Cliff Hagan: si chiama “Gancio cielo” - Sky Hooks da quelle parti - e, nella sua versione, manda in frantumi i progetti di gloria di chi intendeva affossarlo. Il funzionamento appare quasi tribale, eppure la giocata risulta indifendibile. Ferdinand fa spazio tra sé e il marcatore diretto allargando l’ala sinistra. Poi si issa in cielo da distanza ragguardevole, stringendo la palla nel palmo della destra. Quindi lascia partire, in sospensione. Gli altri possono solo contemplare. Il giochino gli vale caterve di punti.

È la prima sliding door di una vita destinata a diventare in fretta tumultuosa fuori dal parquet. L’altro pomello su un’esistenza che non c’era mai stata Ferdinand lo gira nel 1971, un giorno dopo aver vinto l’anello. Dietro a quegli occhiali dalle pittoresche lenti gialle, perennemente agganciati, il centro cova una cesura profonda con il suo passato. La fascinazione per l’Islam più radicale – dalle parti della Power Memorial scuotono il capo – lo persuade a cambiare nome in Kareem Abdul – Jabbar. Negli anni Settanta le conquiste sportive, complice il passaggio ai Lakers, si affiancano ad un periodo cupo. Il suo avvicinamento al leader religioso Hamaas Abdul – Khaalis è un innesco pronto a deflagrare. Nel 1973 l’abitazione di Washington DC del fondamentalista, di proprietà del cestista, diventa teatro di un bagno di sangue. In un regolamento di conti scattato per le faide interne alla Nations of Islam muoiono sei bambini.

Abbastanza, pensa Kareem, per rompere con Hamaas, divorziare con la moglie che lui gli aveva indicato e riavvicinarsi alla famiglia con la quale aveva rotto i ponti, sempre su indicazione del guru islamico. Quel cognome però non intende cambiarlo. Alcindor, del resto, era l’eredità dei coloni francesi che avevano schiavizzato i suoi antenati. Uno strazio assecondato da una religione in cui non si identifica più. Le contraddizioni razziali che percorrono il Paese erano già state, del resto, motivazione profonda per rinunciare alle Olimpiadi del ’68.

I drammi esterni non influiscono però sul suo rendimento in campo. A Los Angeles, anche se dovrà attendere l’arrivo di Magic Johnson per costituire un dream team, Jabbar distilla lampi di classe fino a quarantadue anni. Vince titoli e premi individuali, battagliando contro rivali del calibro dei Boston Celtics e dei Detroit Pistons. Diventa il cestista più prolifico nella storia dell'Nba, con 38.387 punti. Un record ancora saldo.

Quando sfila via dal parquet per l’ultima volta

– è il 13 giugno 1989 – compagni, avversari e pubblico lo salutano con un’interminabile standing ovation. Oltre trent'anni dopo quel gancio in mezzo al cielo se ne sta ancora lì appeso, nella memoria collettiva.

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