Lazio, 120 anni prigionieri di una fede. Vi spiego cos'è la "lazialità"

Fondata il 9 gennaio del 1900, oggi la Lazio compie 120 anni. Il lungo volo dell'aquila tra simboli e due pazzi scudetti

Lazio, 120 anni prigionieri di una fede. Vi spiego cos'è la "lazialità"

Un laziale ve lo dovete immaginare così: seduto in terra a colorare la sua letterina da spedire a Beppe Signori. Oppure chiuso in un armadio in quel magico 14 maggio del 2000, convinto erroneamente di aver perso (di nuovo) uno scudetto sognato troppo da vicino. Ve lo dovete figurare a volte in lacrime, ma anche felice con poco. Sorride, il laziale. E non tanto per i trofei. Ma perché in fondo siamo "la prima squadra della Capitale", perché Olimpia che vola sul prato dell’Olimpico fa venire i brividi. Perché Lulic al minuto '71, Chinaglia, la banda del "meno nove", la Nord, "non mollare mai", il ritorno di Di Canio, il gol di Paoletto alla Roma. La Coppa delle Coppe. Klose.

Si dice che la Lazio sia "una fede" di cui gli sventurati tifosi si sentono prigionieri. E forse è davvero così. Per chi è nato a cavallo degli anni ’90, quella benedetta maglia biancoceleste significa l'estro di Zeman e Signori, la meraviglia di Mancini e Eriksson, lo scudetto all'ultimo secondo, la pazzia finanziaria di Cragnotti. Vieri, Crespo, Boksic, Salas: la Lazio è stata il sogno da cui nessuno avrebbe mai voluto svegliarsi. Una droga bellissima, seguita da un drammatico tracollo. La zona bassa della classifica, il successo che diventa miraggio. Una squadra che torna provinciale (nonostante la Roma caput mundi in cui gioca), per poi iniziare la lenta risalita che la porterà ai successi della truppa di Simone Inzaghi.

Se guardiamo indietro fino dal lontano 1900, la storia della Lazio appare più o meno ciclica. Si ripete. Cambiano gli attori, certo. Ma non la sostanza che resta un'altalena di immense gioie e lunghi dolori. Per questo, 120 anni dopo, a unire i tifosi laziali non sono i successi. Ma i simboli. Tommaso Maestrelli oggi viene omaggiato anche da chi l'ha conosciuto solo nei documentari ("lassù ce il Maestro, che ce ‘sta a guardà", intona lo stadio) e nel firmamento biancoceleste regnano Chinaglia, Re Cecconi, Bruno Giordano, Pulici, Wilson, il bomber Piola, la follia di Gascoigne, Bruno Giordano, Zoff, Beppe Gol, Nesta e scusate se ho dimenticato qualcuno. La lazialità è strana. Perché nel calendario dei giorni santi è segnato sì il pazzo scudetto del 1974, conquistato da una squadra divisa in bande ma granitica in campo; ci sono eccome la pioggia di Perugia, il gol di Calori e quegli interminabili momenti di attesa prima del fischio finale di Collina; sono impresse ovviamente anche la Supercoppa Europea strappata al "Manchester degli invincibili" e la Coppa Italia "alzata in faccia" alla Roma. Ma è soprattutto l’impresa (molto) meno trionfale in serie B della squadra guidata da Eugenio Fascetti a scaldare i cuori dei tifosi. Strano, vero?

Non per i laziali. Nel 1986 la società retrocede in B e si ritrova ad inizio campionato con una penalizzazione di 9 punti che pesano come un macigno. All'ultima giornata, contro il Vicenza, serve una vittoria per agguantare gli spareggi e evitare il baratro della C. All'82esimo Giuliano Fiorini trasforma una normale salvezza nella serie cadetta in leggenda: si ritrova la palla tra i piedi, controlla a seguire e insacca in rete. Un boato. Quella zampata è stampata nella memoria dei laziali, anche di quelli venuti al mondo 20 anni dopo la magica corsa del numero 11 sotto la curva. "Voi non eravate ancora nati, quando questa maglia è diventata storia", dice un video commemorativo. È la favola di un attaccante immortale e la dimostrazione di come alla Lazio non serva vincere una Champions per diventare un'icona. Basta il cuore.

I simboli, appunto. Lotito col tempo questo aspetto della lazialità l'ha capito più di tanti altri. E l'ha sfruttato per convincere gli scettici o chi lo criticava. Quando non poteva regalare campioni di primo livello, ha cercato di garantire al popolo una bandiera cui aggrapparsi. Prima Di Canio, poi Klose. Infine ha inserito nella dirigenza un portiere amato dalla gente come Angelo Peruzzi. Lotito ha compreso che "lazialità" significa adesione fideistica ad una storia. A quegli emblemi. Portare all’Olimpico un'aquila in carne ed ossa è stato il vero colpo di genio.

Ci sia permesso un piccolo inciso: negare il substrato di destra, forse addirittura fascista, che serpeggia in Curva Nord sarebbe sciocco. Oltre che inutile. La storia dei laziali è anche quella degli Irriducibili, della irrazionale guerra a Lotito, dei saluti romani a piazzale Loreto, degli ignobili attacchi a polizia e tifosi avversari. È la vicenda di Fabrizio Piscitelli, alias Diabolik, capo ultras osannato e controverso personaggio ucciso in un probabile regolamento di conti per droga. Anche qui regnano i simboli.

In fondo potremmo dire che la lazialità è irrazionale, nel bene come nel male. Perché viene vissuta come un amore da tramandare “di padre in figlio”. Perché significa celebrare il 9 gennaio non come un compleanno, ma come un rito.

"Dove l'immenso è un grande prato verde, la fede si veste di bianco, l'amore si colora di celeste". Tutto il resto è un contorno, è il gioco del pallone. I successi arrivano e tramontano, le delusioni passano. Resta solo la Lazio. Centoventi anni dopo.

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