La lezione di Alboreto, il pilota gentiluomo che realizzò il suo sogno

Il ricordo della moglie: "Era determinato. Arrivò in F1 con il suo talento, non coi soldi"

La lezione di Alboreto,  il pilota gentiluomo che realizzò il suo sogno

Vent'anni senza Michele Alboreto sono tanta roba. Ci sono ragazzi che non lo hanno mai visto correre, che non lo hanno mai sentito parlare. Per chi ha amato una certa Formula 1 però Michele non se ne andrà mai via. Non solo perché è stato l'ultimo italiano a vincere un gran premio con la Ferrari, l'ultimo pilota amato dal commendatore. Michele è stato un uomo tutto d'un pezzo in un mondo che stava cambiando, capace di rinunciare a un ingaggio d'oro dalla McLaren perché Enzo Ferrari gli aveva chiesto di restare a Maranello, disposto a perdere il posto pur di non tradire uno sponsor che l'aveva sempre aiutato. Un uomo che dava peso alle parole. Un uomo coerente.

Un posto da dove Michele non è mai andato via è il cuore di sua moglie Nadia, delle sue figlie Alice e Noemi, dei suoi tanti amici. Quel 25 aprile del 2001, Nadia rispose al telefono senza pensarci. Ma quando dall'altra parte capì che c'era il grande capo dell'Audi, comprese che qualcosa di brutto doveva essere capitato all'uomo di cui si era innamorata da ragazzo. «Abitavamo nella stessa via. Aveva 16 o 17 anni, non aveva ancora la patente. Non era ancora un pilota, ma aveva già una passione che non gli è mai andata via. Io non ero appassionata, ma mi appassionai per seguire lui. Prima durante i weekend, poi quando arrivò in Formula 1 lasciai il lavoro. Se decidi di passare la tua vita con un pilota sai che prima o poi può succedere. Avevo visto andarsene tanti amici, Villeneuve, Paletti, De Angelis. Ma pensi sempre che non capiterà a te. All'inizio ti senti persa, vuota, poi grazie alle mie figlie che erano ancora piccole ho reagito, ho continuato a vivere tenendo Michele ben presente e vivo nei nostri ricordi». Come in quella foto trovata in una sua valigetta che Nadia ha messo ben in evidenza: «Non la foto di una vittoria, ma una in cui da uno sfondo scuro emerge l'uomo con quel suo sguardo profondo...».

Chi ha conosciuto Michele ce l'ha ancora nel cuore. Chi non l'ha conosciuto può provare a farlo dalle parole di sua moglie: «Michele era determinatissimo, se voleva una cosa alla fine la otteneva. È riuscito a realizzare il suo sogno di correre in Formula 1 basandosi solo sul suo talento. Non era ricco di famiglia, ha dimostrato che con la volontà, la determinazione e l'impegno si possono raggiungere gli obbiettivi più grandi. Era positivo, solare, aveva un'ironia molto British che mi colpì subito. Abbiamo riso tantissimo insieme». Dicono più i sentimenti dei numeri. Dei 195 Gp disputati con 5 vittorie, 2 pole, 5 giri più veloci oltre alle vittorie alla 24 ore di Le Mans e alla 12 ore di Sebring. Nel 1985 Michele arrivò secondo nel mondiale, battuto solo da quelle maledette turbine che da metà stagione cominciarono a rompersi sulla sua Ferrari. «Con Ferrari aveva un rapporto speciale. In tante occasioni mi è capitato di accompagnarlo a Fiorano e di incontrare il commendatore. Ricordo la sua cortesia e la sua curiosità. Un giorno mi regalò un foulard che ho ancora adesso. Qualche tempo dopo lo rivedemmo insieme al Conte Zanon e a sua moglie e Ferrari disse a Gozzi: Franco prendi un foulard per la signora, non per la signora Alboreto a lei lo abbiamo già dato».

Il Conte Zanon è stato il pigmalione di Michele, l'uomo che gli ha aperto tante porte aiutandolo a salire sulla Tyrrell nel 1981, giusto 40 anni fa. Oggi a vent'anni da quel volo maledetto del Lausitzring, sarebbe bello che Monza gli dedicasse una curva. La sua Rozzano gli ha dedicato una piazza e un bel monumento. La sua pista non può dimenticarlo.

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