La pista d’atterraggio ribolle, sfinita dalla torrida estate salentina. L’uomo che lo attende fremente in fondo alla scaletta ha un aspetto corpulento e il sorriso abbondante di chi è convinto d’averla fatta grossa. Ora inforca un gigantesco paio di occhiali da sole per contemplare la sua nuova creatura in controluce e asciuga un rivolo di sudore che cola sulla fronte madida. Quando il ragazzo finalmente scende, si presenta stritolandogli la mano: “Piacere, Pantaleo Corvino”.
Mettiamo ordine in campo. Il direttore sportivo gongola, ma conficcata in un punto imprecisato delle sue viscere esiste la paura primordiale di inciampare. Prima di tutto perché Lecce è un luogo onnivoro, pronto a issarti in cielo o a triturarti, a seconda dell’occasione. Secondo poi, ma certo non meno importante, perché è da sempre scrupoloso custode di un mantra che non lascia pertugi o fessure interpretative: “Puoi sbagliare la fidanzata. Puoi sbagliare la moglie. Ma non puoi sbagliare l’attaccante”.
Pantaleo ancora non lo sa, ma non solo non ha sbagliato. Ha addirittura fatto il colpo della vita. Le cose stanno più o meno in questo modo: Ernesto Javier Chevanton, uruguagio di nascita, ha passato la prima giovinezza a sradicare porte in patria. I parafiliaci delle statistiche racconterebbero di 63 gol in 62 presenze con la maglia bianconera del Danubio di Montevideo. Nel 2000, a vent’anni, ne fa 36 in 35 presenze, diventando capocannoniere. Disarmante e draconiano.
Ma c’è dell’altro. L’apparenza spesso tiene la difesa alta e ti lascia in offside. Non è la vena realizzativa la migliore delle virtù chevantoniane. Una giurisprudenza calcistica avveduta sentenzierebbe, piuttosto, che le sue migliori qualità risiedano inequivocabilmente nel dribbling stretto, in quel piede destro che sembra contenere dinamite e in quel vezzo per la giocata geniale che non impari da nessuna parte. Ce l’hai dentro e basta.
Lo pagano 7 milioni. Alle sue spalle giostra un altro illuminato, il regista Guillermo Giacomazzi. Uno lancia, l’altro trasforma. Una coppia inafferrabile che, tuttavia, non riuscirà a trarre in salvo i giallorossi dal declivio scosceso della cadetteria. Il 26 agosto, alla prima di campionato, Chevanton ci mette esattamente 2 minuti per sedurre il Via del Mare. Ruba astutamente palla a Frey e deposita in rete, per il vantaggio sul Parma. L’uruguagio è un detonatore di speranze: con i suoi colpi astrusi, eppure concreti, fa pulsare migliaia di vene. A fine stagione saranno 11 centri e 6 assist in ventisette presenze. Non basterà, come si diceva.
Qui si consuma il primo vero atto di amore puro verso il Lecce. Potrebbe rimanere in Serie A, ma scende in purgatorio consapevolmente. Il Salento è già una seconda pelle che non viene più via. In B è fuori contesto e per nulla ecumenico: sei gol nelle prime sei, un record storico mandato in frantumi. Segna da ogni zona del campo, indecifrabile e sfuggente, come una di quelle ragazze che pare ci stiano, ma poi ti fregano brutalmente.
Tornato nel suo vialetto di casa fa appena in tempo a spazzolarsi le scarpe e ricomincia a mietere vittime. Nel tridente pensato da Delio Rossi, al fianco di Vucinic e Bojinov, infila 19 gol e spinge il Lecce al decimo posto. Centri su azione, su piazzato e pure da calcio d’angolo. La città stravede per lui, ma il munifico Monaco tende un agguato: 10 milioni sonanti e tanti saluti.
L’amore vero però non ha codici a barre. Quella seconda pelle non la gratti via nemmeno con mille docce in spogliatoi diversi. Così Chevanton torna tre volte. Prima nel 2010: un annuale che basta per salvare ancora una volta il Lecce. Poi nel 2012, quando il club è sprofondato per colpa del calcioscommesse: si inoltra nelle categorie meno nobili del calcio italiano, prende il salario minimo, gioca uno spezzone dell’ultima con un braccio rotto. Non basterà a risollevarsi, ma il cuore lanciato sul campo non lo scorda nessuno.
Così si consuma anche il terzo ritorno, nel 2020, stavolta come collaboratore tecnico della primavera.Il Salento è una calamita irresistibile. Cheva depone volentieri le armi. In fondo l’uomo ai piedi della scaletta aveva indovinato qualcosa di più di un semplice attaccante.
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