«Sì, andò così, come ha scritto Gigi nel suo libro. Convocai il suo manager, Silvano Martina che stava trattando con il Barcellona: cosa fai in giro per l'Europa? Vieni domani in sede che parliamo. E Gigi firmò con la Juventus, era l'estate del 2001». Luciano Moggi, 82 anni il 10 luglio, sa di calcio, come si diceva una volta. Fu lui a portare Gigi Buffon a Torino la prima volta. E ora il Numero 1, come recita la sua autobiografia, riprenderà il suo posto nel lato corto dello spogliatoio bianconero, quello dove ci sono solo due seggiole e due armadietti, il posto dei leader. Secondo una leggenda si chiamerebbe trono e spetterebbe a quello che, se fossimo nella vecchia Armata Rossa, sarebbe il commissario politico, il custode dell'ortodossia. Comunque si chiami, lì sedeva e probabilmente siederà Gigi con Ronaldo accanto.
«Ma Gigi Buffon non è solo questo. A parte il fatto che torna volentieri a casa, aveva anche altre opzioni».
Ci spieghi.
«Torna come secondo ma potrebbe essere il primo: ha la forza mentale oltre che fisica. Però Szczsny è bravo, così Buffon si adeguerà. Alla Juventus ha un futuro in società».
Lo hanno preso per il suo ruolo carismatico.
«Secondo me non solo per quello, comunque il carisma lo esercita di sicuro. Giocatori come lui, con la sua carriera, con il suo passato, sono credibili, quando parlano è vangelo».
La seconda vita in bianconero. Chi era Buffon quando lo prese lei?
«Era un ragazzino con le sembianze di un campione. Questo vuol dire che diventare un campione è un percorso. Tanti sembrano eccezionali e poi si dimostrano normali, tanti hanno la possibilità di trasformarsi e l'afferrano».
Pensa a qualcuno in particolare?
«Ronaldo. Quando lo vidi nello Sporting Lisbona mi incantò. Però poteva diventare solo un buon giocatore senza la sua forza mentale. Con questa è diventato un fuoriclasse».
È un problema comune a tanti giocatori, potremmo fare una lunga lista di nomi.
«Il passaggio del ragazzo all'età adulta, la maturazione è legata alla testa, se hai solo le qualità tecniche non vai lontano».
Buffon appartiene alla prima categoria.
«Prima di ingaggiarlo, parlavo spesso con Silvano Martina e dai suoi racconti avevo ricavato l'impressione, poi confermata dalla frequentazione, che Buffon fosse di una pasta speciale».
All'inizio lei pensava solo al suo ruolo come giocatore.
«Certo, però già all'ora non era semplice un ragazzino con dei sogni ma un professionista che voleva arrivare al massimo. Una condizione mentale. Se ci fate caso, Gigi da giovane non era protagonista del gossip, si dedicava solo all'attività agonistica».
E nello spogliatoio come si comportava?
«Quando arrivò, i primi tempi, era non dico sperduto, questo no, però di fronte aveva veterani alla Juve da tanti anni. Non aveva il carisma che può avere ora, ma dopo alcune settimane cominciò a far sentire la sua voce. Lui già diceva la sua e ogni parola che pronunciava non era scontata. Questa determinazione, questa voglia di importi è qualcosa con cui nasci».
Un anno da capitano non giocatore, diciamo così. Un sostegno in più per il nuovo tecnico Maurizio Sarri.
«Il passaggio tra lo spogliatoio e la scrivania non sarà traumatico, ma naturale. Per quest'anno, oltre che per il suo valore tecnico, sarà importante per la società e la squadra. C'è un allenatore nuovo che ha bisogno di conoscere meglio e più in fretta l'ambiente. In questo ruolo ci sarà anche Barzagli. Lui e Buffon saranno una presenza importante nello spogliatoio».
Quanto sarà difficile per Sarri?
«Allora, quando cambi ambiente, da qualsiasi ambiente tu venga, dalla Premier come Sarri o anche da un'altra squadra italiana, non dico che occorra un apprendistato, ma ci vuole un po' di tempo perché un conto è conoscere visivamente, tecnicamente i calciatori, un conto è capirli dal punto di vista caratteriale. Spesso i due aspetti non vanno di pari passo, ci vuole tempo e se hai qualcuno che ti aiuta, il tempo si dimezza e tutto è più semplice».
Uno dei suoi grandi assiomi, pronunciato quando prendeste Capello nel 2004, fino a un giorno prima acerrimo rivale con la Roma, fu: nel calcio tutti interpretiamo un ruolo, poi questo ruolo si cambia.
«Sì, è vero.
Un professionista non ha bandiera, soprattutto se è un tecnico, la bandiera è dove allena e la tutela del proprio club passa dai risultati sul campo e anche dalle dichiarazioni. Certo, c'è chi si comporta in maniera più educata e chi meno, ma rappresentare il club che ti passa lo stipendio è il tuo compito».
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