Lui non avrebbe voluto, lui non avrebbe gradito, perché lui guardava sempre al futuro. Era questo il tris di frasi di circostanza con cui, nei giorni successivi all'improvvisa scomparsa di Sergio Marchionne, il team Ferrari aveva a più riprese risposto a chi domandava, stupito, come mai il presidente fosse stato così velocemente archiviato. Pochi accenni, poche parole, seguite spesso da dediche sbrigative e altrettanto sbrigative spiegazioni, talvolta di Maurizio Arrivabene, tal'altre di Sebastian Vettel. E il cui senso era sempre «lui non avrebbe voluto soffermarsi sul passato, guardava sempre al futuro...».
In effetti, l'uomo che «guardava sempre al futuro» aveva già allora deciso che cosa sarebbe successo ieri in caso di mancato mondiale. Ovvero, i saluti serali ad Arrivabene frutto di una «decisione presa di comune accordo con i vertici dell'azienda dopo una profonda riflessione in relazione alle esigenze personali di Maurizio e a quelle della Scuderia», questo il comunicato; e il contestuale avanzamento di Mattia Binotto, l'ingegnere 49enne, reggiano, ma di natali svizzeri, su cui l'uomo che guardava sempre al futuro aveva puntato da tempo, fino ad affidargli il reparto tecnico. Una decisione, quella di ieri, che segue altre prese negli ultimi mesi in linea con i desiderata del presidente scomparso. È il caso dell'addio a Raikkonen che Marchionne avrebbe voluto appiedare per scarso rendimento già a inizio estate e a favore di Leclerc; ovvero, proprio il pilota che poi è stato ingaggiato come sostituto del finlandese per quest'anno.
Per cui, la decisione anticipata dalla Gazzetta dello sport e confermata ieri dalla Ferrari, decisione presa direttamente dal presidente John Elkann, va nel solco tracciato dal predecessore. Non perché nell'ultimo periodo la sintonia fra i due fosse enorme anzi, ma perché è l'unica decisione di buon senso. E le ragioni sono presto spiegate. Mattia Binotto, in Ferrari dal '95, dove aveva iniziato da motorista della squadra test, nel 2015, da responsabile dei motori aveva tolto il Cavallino dal pantano in cui era sprofondato nella prima stagione ibrida. Proprio per questo, nell'estate 2016, vista la bontà del nuovo motore, Marchionne aveva deciso di lanciare Binotto al vertice tecnico della squadra, spiazzando tutti, a cominciare dall'epurato James Allison, ora dt in Mercedes. Quella che era sembrata una scelta disperata, motivata dalle difficoltà nel trovare un tecnico di grido che volesse rischiare serenità e immagine lavorando per il Cavallino in crisi, era invece stata una promozione motivata, mirata e coraggiosa; di più, era stata una scommessa, un all-in di stampo pokeristico: dare tutto il potere tecnico a un profondo conoscitore del team, già noto come ottimo gestore di uomini, liberandone ulteriori doti. In pochi mesi erano infatti seguite le scelte azzeccate di affidare il reparto aerodinamico e motoristico a uomini cresciuti all'interno della Ferrari ma non ancora coinvolti in F1: Enrico Cardile per la parte telaistica, e Corrado Iotti per i propulsori. I risultati della Rossa, in particolare la bontà di quelli ottenuti dalla SF71H nella prima parte della scorsa stagione, non hanno poi fatto altro che rinforzare la posizione di Binotto agli occhi del team e di Marchionne. Indebolendo quella di Arrivabene, andato in seguito in difficoltà per via degli errori di Vettel, la scellerata non gestione della partenza di Monza con Raikkonen in pole e Seb accanto. La resa mondiale e le accuse di mancato sviluppo tecnico nella parte finale della stagione rivolte dal manager bresciano hanno solo aumentato il grande freddo fra i due. Fino all'ultima partita di poker.
L'all-in che Binotto, come il suo mentore Marchionne quando scommise su di lui nel 2016, ha messo sul tavolo del futuro: «O io o lui». Sapendo che Mercedes e Renault erano alla porta (più la seconda). E così il futuro già scritto dall'uomo che guardava sempre al futuro è diventato realtà. L'ultima vittoria di Marchionne.
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