Gigi Datome, capitano dell'Italbasket dal 2013: sapeva che il campionato italiano compirà 100 anni martedì 26?
«Sinceramente no. Facciamoci tanti auguri, allora. Anche se io ho ancora un anno di contratto con il Fenerbahce».
Si dice però che Milano la corteggi con insistenza.
«Prima finiamo la stagione, poi vediamo».
Ha ancora un senso immaginare di portare a termine l'Eurolega?
«Deciderà chi di dovere».
A proposito di Fener e di Eurolega, da lei vinta nel 2017: il rapporto con Obradovic è sempre al top?
«Il coach è una persona speciale, sempre onesto con i suoi giocatori. Lui è il nostro Michael Jordan: da lui puoi accettare cose che da altri non potresti».
Riavvolgiamo il nastro: con il basket, è stato amore a prima vista?
«Decisamente. Mio padre è tuttora presidente del Santa Croce Olbia '70: in pratica, sono nato con una palla a spicchi in mano. E gioco con il numero 70 proprio per omaggiare le mie radici».
I primi ricordi risalgono a quando?
«La palestra è stata la mia seconda casa. Semmai, ricordo le urla di mia mamma che mi supplicava di tornare a casa».
Mai avuto una crisi di rigetto?
«Mai, anzi. Passione e divertimento sono diventati felicità e ambizione. Alla fine anche la responsabilità: a me piace essere sotto pressione».
La sua trafila azzurra è cominciata in Under 16, con U18 e U20 ha vinto due bronzi agli Europei: è facile sentirsi arrivati troppo in fretta?
«Non nel mio caso. Per diventare quello che avevo in mente, sapevo di dovere ancora lavorare tantissimo».
A nemmeno vent'anni, nel 2007, la nazionale maggiore.
«Un'emozione unica, fin dall'esordio nella Sperimentale contro la Croazia. Poi, a settembre, anche gli Europei: ero in paradiso, mi allenavo con Bulleri, Basile e Galanda, o con giovani in rampa di lancio come Belinelli e Bargnani».
In precedenza, l'Italia da guardare in tv era...
«Una libidine. Ricordo l'argento agli Europei 1997, Fucka e Myers erano i miei giocatori di riferimento. E poi Andrea Meneghin, con la vittoria nell'edizione di due anni dopo».
Fino all'argento ai Giochi di Atene 2004: da allora, la Nazionale non si è più qualificata per le Olimpiadi.
«Ero a Siena, a causa degli allenamenti non riuscii nemmeno a vedere tutte le partite: fu una cavalcata memorabile».
C'è un gruppo azzurro del quale le avrebbe fatto piacere essere parte?
«Uno di questi ultimi, così avrei vinto qualcosa anche io. Scherzi a parte, quello era un gruppo che trasmetteva emozioni. Anche la mia generazione ha comunque dato sempre il massimo, pur non avendo finora vinto nulla».
Come le è stato cucito addosso il ruolo di Grande Saggio?
«In realtà da ragazzo ero un po' fumantino. Sono cresciuto in fretta: a 15 anni giocavo in B2 a Olbia, poco dopo in serie A, a 20 in nazionale. Ho dovuto imparare in fretta a comportarmi avendo gli occhi addosso».
Che effetto fa essere stato indicato dall'attuale presidente federale Petrucci come suo possibile erede?
«È stato un attestato di stima. La Federazione però non è un sultanato: la successione viene decisa a tavolino. Di mio, farò quello che mi renderà felice e che riterrò di sapere fare».
Datome è felice quando?
«Quando faccio parte di un gruppo che ha obiettivi di alto livello. E quando si lavora duro per raggiungerli».
Cosa le resta dell'esperienza in Nba con Detroit e Boston?
«La soddisfazione di esserci arrivato dopo un lungo percorso. E la consapevolezza di avere fatto la scelta giusta, quando ho deciso di andare e quando ho preferito tornare in Europa. Tutto è servito per farmi diventare la persona che sono: senza le esperienze all'estero sarei una persona diversa. Lo sport mi ha insegnato che il duro lavoro, alla lunga, paga. E che, per rendere al meglio, bisogna essere bravi a scegliere il contesto giusto».
Quanto dovrà lavorare il basket italiano per salire di livello?
«Bisogna darsi obiettivi a lunga scadenza: migliorare le strutture, riformulare la legge sul professionismo, aumentare la visibilità e coinvolgere più sponsor».
Intanto Roma, con la quale lei sfiorò uno scudetto, rischia di sparire.
«L'addio del presidente Toti non mi ha sorpreso, erano anni che lanciava allarmi. Il movimento deve diventare sostenibile: il mecenate non basta più».
Il prossimo giugno ci sarà il pre-olimpico, con la doppia sfida alla Serbia: ci sarà?
«Se mi vorranno ancora, senza dubbio. Una medaglia con la Nazionale resta il mio grande sogno».
Pronto a rinunciare alla celebre barba, nel caso?
«Quando abbiamo vinto l'Eurolega, ho tagliato il codino...».
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