Le vaccinazioni continuano, il calcio va avanti, ma proseguono anche le resistenze di chi al vaccino ha detto no. Una guerra destinata a durare a lungo, salvo decisioni drastiche come quelle adottate in Premier League (vaccino obbligatorio dal 1° ottobre) o in Nba, dove in certi casi senza l'inoculazione non ci si può nemmeno allenare.
Nel nostro Paese si discute ancora a quali categorie di lavoratori estendere l'obbligo e sullo sfondo, da spettatore interessato, rimane tutto il mondo dello sport con le misure conseguenti da adottare. Il primo passo spetterebbe al Governo con una legge apposita, ma l'avvocato Mattia Grassani, esperto in materia di diritto sportivo, fa notare che «in astratto anche la Figc potrebbe adottare un proprio protocollo che vada a disciplinare l'attività dei tesserati, prevedendo l'obbligo vaccinale. La strada però sarebbe tortuosa in mancanza di una legge perché si andrebbero a toccare principi costituzionali, come libertà individuale della persona e tutela della salute».
Fin qui la Federazione si è limitata ad approvare la norma che prevede l'obbligatorietà del green pass per i tesserati coinvolti in competizioni professionistiche, facendo riferimento al vaccino, ma anche all'attestato di guarigione da Covid-19 o il tampone entro le 48 ore. I club vogliono cautelarsi di fronte a un giocatore non vaccinato e risultato positivo, costretto a saltare partite ufficiali, allenamenti e a risentirne a livello di condizione fisica. Qualche presidente potrebbe anche rivalersi in sede legale, come spiega Grassani: «Sul piano del diritto del lavoro la mera positività non dà luogo a richieste risarcitorie, ma se derivasse da condotte contrarie alle norme o comunque negligenti, la società potrebbe agire verso il dipendente. In questo caso si parla di irrogazione di sanzioni disciplinari, con possibilità di avanzare richieste risarcitorie proporzionali al pregiudizio subito per violazioni delle norme di legge in materia di prevenzione da contagio».
Indietro non si torna e per chi non vuole vaccinarsi, l'unica alternativa possibile appare il ricorso ai tamponi, da effettuare ogni 48 ore per mettersi a disposizione del proprio tecnico tra allenamenti e partite. «La certificazione verde non rappresenta solo una questione di regole, ma va vista anche a tutela dei compagni e del gruppo di lavoro - aggiunge Grassani -. In caso contrario ci sono i presupposti affinché un calciatore possa essere escluso dall'attività della prima squadra, senza incorrere in inadempimento contrattuale. Le clausole vaccinali nei futuri contratti? Il vaglio di legittimità sarebbe complesso.
Nutro dei dubbi sul possibile obbligo contrattuale di eseguire il vaccino che, almeno attualmente, non pare imprescindibile per lo svolgimento dell'attività professionale, pur rappresentando uno strumento importante di tutela della salute individuale e di gruppo». La battaglia continua, a breve potrebbero esserci sviluppi.
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