"Sì, le mie azzurre sono forti. Non ci si deve nascondere". Intervista a Julio Velasco

Il ct e la medaglia olimpica inseguita dal volley: "Ci crediamo: ora serve tranquillità e aggressività"

"Sì, le mie azzurre sono forti. Non ci si deve nascondere". Intervista a Julio Velasco
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Julio Velasco e l'Olimpiade. Un traguardo sfuggito di un soffio ad Atlanta '96, dove con l'Italvolley maschile si fermò a un passo dall'oro, l'unico titolo che ancora manca alla nostra pallavolo. Quasi trent'anni dopo ci riprova, stavolta alla guida della nazionale femminile, con cui ha vinto subito la VNL restituendo entusiasmo e unità d'intenti a un gruppo lacerato dalle polemiche dopo le delusioni al Mondiale e all'Europeo.

Ai Giochi dopo l'oro in VNL: che Olimpiade ci aspetta?

«Sarà un torneo molto equilibrato, sia al femminile che al maschile. La vittoria in VNL non ci rende favoriti, ma non ci nascondiamo: siamo tra le squadre più forti e abbiamo la possibilità di vincere una medaglia, che sarebbe la prima ai Giochi per il nostro volley femminile».

Dopo l'amichevole con la Serbia ha detto che bisogna anche saper giocare male: cosa intende?

«All'interno di una gara può capitare di attraversare momenti negativi, ma è fondamentale imparare a gestirli. La pallavolo è uno sport particolare: puoi perdere malamente un set ma vincere quello successivo. Alle ragazze dico che si può soffrire, ma non subire. È normale che quando l'avversario gioca meglio o prende un vantaggio si va in difficoltà, ma questo non deve condizionarci. Bisogna tenere a livello mentale, stare sempre in partita e non mollare mai, specialmente in un torneo come quello olimpico in cui non ci sono margini d'errore».

In pochi mesi la sua nazionale sembra aver imparato a non piangersi addosso: a Parigi si può sognare?

«In VNL è filato tutto liscio e quindi è stato più facile far trasparire questa immagine, che comunque corrisponde in buona parte alla realtà. Ci crediamo, tutti quanti. Ma ora che si avvicina l'appuntamento dobbiamo per prima cosa battere i nostri due più grandi nemici: l'ansia e il dubbio. Le ragazze, in generale, odiano sbagliare e fanno fatica a perdonarsi un errore, e di conseguenza sono più portate a dubitare di loro stesse. Per questo ho chiesto loro di essere autonome e autorevoli: in campo, nei momenti decisivi, gli atleti sono soli e non c'è allenatore o staff che tenga. Questo è un gruppo di buoni giocatrici e di buone personalità: devono stare tranquille ma allo stesso tempo essere aggressive, perché l'aggressività è il miglior deterrente contro l'ansia e il dubbio».

Egonu-Antropova: gerarchie chiare.

«Paola è il nostro opposto titolare, Kate può essere un'arma formidabile dalla panchina e ci dà grande tranquillità in ruolo fondamentale».

Di nuovo in pista, a 70 anni e in mondo nuovo come il femminile: la pensione è lontana.

«Andare in pensione è l'ultimo dei miei pensieri. C'è una frase bellissima di Clint Eastwood che faccio mia: Non lascio strada al vecchio'. Quella al femminile è un'esperienza che ho sempre voluto fare e che avevo lasciato in sospeso nel '97, quando dopo pochi mesi alla guida della nazionale ricevetti un'offerta irrinunciabile dalla Lazio di Cragnotti. Mi ero proposto per la panchina dell'Argentina, poi è arrivata l'occasione a Busto e si sono aperte in modo inaspettato le porte per il ruolo da c.t. a un anno dalle Olimpiadi. Sono molto contento di essermi tuffato in questo ambiente, così come mi sono goduto i quattro anni nelle giovanili».

A proposito di giovani: quelli bravi nel volley li abbiamo, nel calcio abbiamo smarrito il talento?

«Abbiamo appena vinto l'Europeo Under 17, lo scorso anno quello Under 19: parlare di mancanza di talento mi sembra una delle generalizzazioni tipicamente italiane. Nel calcio, come nel basket, c'è un problema molto chiaro: non ci sono limiti agli stranieri. Nel volley fortunatamente questi limiti ci sono, altrimenti saremmo anche noi in difficoltà. L'Italia, poi, è un paese vecchio culturalmente e a livello mentale.

Prendiamo Yamal, protagonista con la Spagna all'Europeo: siamo così sicuri che una squadra italiana del livello del Barcellona avrebbe puntato su un sedicenne, anche se fortissimo? Quando parliamo dei giovani li caratterizziamo sempre in negativo, come se la gioventù fosse un difetto. I ragazzi, nello sport come in tutti i campi della vita, hanno bisogno di sentire la fiducia; se non gli viene data, è difficile che riescano a emergere».

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