«Dopo 30 anni ancora noi». Affiora un sorriso. No, piuttosto uno stupore emozionato. Roberto Mancini quasi sorpreso, rivede la sintesi di tutta una storia. Ancora noi, ovvero lui ora ct della nazionale di calcio, Luca Vialli suo compagno di viaggio, a stretto tiro di gomito in panchina, e Attilio Lombardo oggi assistente in azzurro: una volta era Popeye, il dominatore della fascia destra. Ancora noi, sono anche gli altri: trent'anni fa, 19 maggio 1991, la Sampdoria vinceva lo scudetto rimasto unico sotto tanti punti di vista. Era la squadra definita di Biancaneve e i sette nani, ma nelle 50 sfumature di azzurro, che hanno dominato la vita calcistica del ct, quella che gli ha permesso di intessere una storia. Sarà un caso, perfino in questa chiacchierata Mancio indossa una maglia azzurra: partì dal rossoblu del Bologna, il blucerchiato doriano, il bianco azzurro laziale, il neroazzurro dell'Inter dove ha vinto tre scudetti (due sul campo) da tecnico, il biancoazzurro del Manchester City, fino all'azzurro Italia. E questa estate: «Noi speriamo di farcela. Finora abbiamo divertito, ora vogliamo vincere». Noi, cioè loro tre: i ragazzi della via Samp con i ragazzi generazione Z. Maggio è il mese che profuma di scudetto e forse non a caso il pallone ci ha portato a ricordare il titolo italianamente talentuoso della Sampdoria, novità del tempo che fu, prima della novità di un padrone straniero vincente. E con l'Inter.
19 maggio 1991. Mancini dove inserirlo nella hit parade delle sue date?
«Forse al primo posto per i miei ricordi sportivi. Lo scudetto della Sampdoria era un fatto mai successo. E forse non succederà più: quella squadra aveva qualcosa di speciale».
Ora, con i due compagni, potrebbe aggiungere un altro sogno
«E questo è un sogno proprio di tutti. Speriamo. Non si sa mai che la vita ci regali un'altra gioia insieme».
La vita sportiva vi ha preparato a vincere
«Deve andare tutto nel verso giusto. Ci vuole un po' di sorte».
Nel senso di fortuna?
«Appunto. Se non c'è anche la fortuna... Soprattutto in un torneo così: se passi il gruppo, poi ogni partita decide».
Il maggio di 30 anni fa regalò all'Italia un prototipo di squadra. Da allora lo scudetto è finito solo tra Milano, Torino e Roma. Più facile o difficile di oggi?
«Era difficile anche a quel tempo. Anni prima aveva sorpreso solo il Verona. Abbiamo costruito qualcosa di straordinario. C'è voluto tempo. Spero che il calcio ci riesca nuovamente: l'Atalanta è qualcosa che piace. Servono sorprese: ogni tanto sarebbe bello succedesse».
Ora si prepara a vincere il primo padrone straniero
«Tempi diversi: 30 anni fa non si pensava ai multimiliardari, ad uno straniero padrone di club. C'erano grandi uomini d'azienda. Andava di moda il nostro calcio, un campionato con i migliori stranieri che volevano venire in Italia, stadi pieni, tutti ci ammiravano. Mi spiace non sia più così».
Si vive un calcio diverso anche nelle sue logiche
«Vince chi ha più potenzialità economiche. Difficile battere chi può spendere tanto per forti giocatori. È un'impresa battere Juve, Inter o Milan».
Anche quella Samp aveva potenzialità
«La più importante si chiamava Mantovani: solo lui poteva avere certe idee. Senza lui, sarebbe successo nulla. Poi ci sono stati i giocatori che hanno creduto nel proprio valore, eravamo ragazzi ad inizio carriera. Potevamo andare in squadre blasonate. Infine chi ci ha diretto: il dottor Borea come dirigente e Boskov come allenatore».
Boskov tra realtà e leggenda
«È arrivato e ci ha fatto credere di poter vincere lo scudetto. Voi siete una grande squadra: non era solo un modo di dire. Aveva allenato in diversi club, arrivava dal Real Madrid. Ecco, ci ha fatto credere in lui: ha dato qualcosa che ci mancava».
Ha rischiato perfino il licenziamento quando disse che il suo cane giocava meglio di Perdomo
«Una battuta per ridere, ma quella volta ha rischiato grosso. Mantovani era infuriato, non gli piacevano queste cose. È capitato anche con i giocatori: guai creare problemi».
La massima più massima di Boskov?
«Rigore è quando arbitro fischia. Oppure: noi siamo noi e loro sono loro. Che, a pensarci, avevano tutte una logica».
Le ha mai ripetute ai suoi calciatori?
«Ogni tanto racconto: Boskov scherzava e diceva».
Boskov pensava a Mancini allenatore?
«Ce lo faceva credere a tutti. Era un metodo: chiedeva da chi lo avremmo fatto marcare. Per capire il punto di vista. Poi faceva lui. Una volta dovevamo giocare contro il Milan, non nel 90-91. Chiese: da chi fareste marcare Gullit? Da Vierchowod, rispondemmo. E lui scelse Fusi».
Mantovani ha lasciato qualcosa più dello scudetto?
«Era un visionario, 50 anni avanti rispetto a tutti. Ha ideato quel che nessuno avrebbe mai pensato. Ed ha capito prima degli altri cosa stava accadendo nel calcio. Era diverso: aveva classe, non parlava in continuazione. Appariva poco, ma quando apriva bocca le parole erano importanti. Se tanti avessero seguito la sua linea, sarebbe stato meglio».
Mancini e Vialli erano il simbolo di quella Samp
«Nel calcio si fa presto ad identificarsi con quello che segna gol e quello che fa le giocate, ma non potevamo essere solo noi due. Era un gruppo giovane, cresciuto insieme, ciascuno con i suoi pregi: Pari e Katanec correvano, Cerezo che pensava ed era il più esperto, c'era Pagliuca un super portiere, il gruppo dei difensori che non ti mollava, Vierchowod e Mannini, Luca Pellegrini, Lanna, Lombardo correva veloce. C'era Dossena. Vialli era il miglior attaccante italiano. Io davo qualità».
L'acquisto top fu Michailichenko: dissero con lui è scudetto.
«Fece un buon inizio. Poi si perse per le qualità che aveva».
Il gol più bello di Mancini?
«Quello al volo contro il Napoli, ma già sul 3-1. Forse il 2-0 col Milan in casa. Azione in velocità, anticipo Pazzagli: gol».
Contro il Pisa ubriacò gli avversari eppoi i giornali scrissero: «Tieni Luca, segna tu»
«Vialli rientrava da 7 settimane di assenza: si era rotto il metatarso. Io dribblai 3-4 giocatori, arrivai davanti al portiere e a quel punto gli diedi il pallone. Gli serviva: per un attaccante è importante ricominciare con un gol».
La partita chiave?
«Quella di andata contro il Napoli: vincemmo 4-1, era il Napoli campione d'Italia. Fino al 40' ci avevano messo sotto, segnato un gol (Incocciati ndr.): eravamo appiattiti. Poi, dal 44' al 46', segnammo due reti (Vialli e Mancini ndr.). Ci rimasero secchi. Nella ripresa Vialli realizzò un rigore, infine il mio gol. Da quel momento abbiamo pensato fosse l'anno giusto».
La Samp chiuse l'andata seconda dietro l'Inter. A febbraio due sconfitte, poi vai. Fin a maggio, match a San Siro con l'Inter che perse l'ultima speranza: 2-0 (Dossena e Vialli). Era il 5 maggio: le ricorda qualcosa?
«Davvero 5 maggio? Non lo ricordavo. Per l'Inter una data no, non gliene va bene una: quest'anno lo evita. Pagliuca ci salvò la pelle come tante volte: parò un rigore a Matthaus».
Mancini, però, non giocò il 19 maggio contro il Lecce, 3-0 (Cerezo, Mannini, Vialli). Partita scudetto a Genova. Era squalificato. Scherzo del destino?
«Vero, mi è spiaciuto. Ma contava l'obbiettivo. C'ero lo stesso, ero con loro. Mi è mancata solo quella partita».
Di quella Samp è stato detto: calcio di classe, bellezza estetica, eleganza, simpatia. La sua definizione?
«Il calcio della voglia di vincere. Lo volevamo a ogni costo, per noi, per far parte della storia, per il presidente».
Ci fu un patto di spogliatoio, andava di moda anche allora
«Certo, ce lo siamo detti. Qualcuno poteva andare via, aveva diverse proposte. Ma il patto era di arrivare insieme allo scudetto. Poi ci fu la finale di coppa Campioni e da quel momento tutti liberi».
Cos'era Genova per voi?
«Era il vivere bene, ci divertivamo, era lasciarle qualcosa di grande. Qualcosa che andrà sempre raccontata».
Raccontare cosa?
«Darei qualunque cosa per tornare indietro di 30 anni. Vorrei che questa storia servisse ai giovani per capire che si può raggiungere l'impossibile anche se l'obiettivo è lontano. Mai mollare, prima o poi arriverà il momento. C'è stato amore per i tifosi, per il presidente, sentimenti che dovrebbero far parte della nostra vita. Se c'è qualcosa di bello e sai comportarti bene, vedrai che arriverai all'obiettivo».
C'è rimasto molto di quella squadra?
«Siamo ancora legati, di tanto in tanto ci vediamo quasi tutti per una cena. L'amicizia che si è creata rimane speciale. È stato molto più del vincere uno scudetto. È stata la storia della vita di ragazzi che si sono divertiti. Anche se, ormai, qualcuno è un po' più anziano».
Poi ci sono tre della banda
«Noi speriamo. Siamo convinti di farcela, se tutto va per il verso giusto. Basta niente per deludere, ma sarebbe una storia da sogno. Fantastico! Dopo trent'anni ancora noi».
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