La sera in cui nacquero i gol alla Del Piero

Il 13 settembre del 1995, a Dortmund, Alessandro Del Piero fabbricò la prima delle sue personalissime segnature

Alex Del Piero in azione contro il Borussia
Alex Del Piero in azione contro il Borussia
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Tubo catodico che fa le bizze. Piccola botta d’assestamento. Mamma dice che bisognerebbe fare un salto dai nonni, ma io mi nego nella maniera più categorica. La tesi regge su solide fondamenta: la Champions se ne infischia dei gradi di parentela. E poi per nonna quelli sono solo, letterale, "ventidue stupidi che corrono dietro ad un pallone". Quindi è deciso, si puntano i piedi. Ancora oggi, a ventisette anni di distanza, mi compiaccio di quella risolutezza. Perché, fossi uscito, mi sarei perso molto.

I tipi in maglia giallonera stanno cercando un pertugio. Gli altri, che indossano strisce bianconere, si addensano per evitare d’essere infilzati. Il Westfalen Stadion ribolle. Il 13 settembre 1995 c’è ancora tutto da fare: un pareggio non basta, anche se davanti a te fluttua - con quella consolidata attitudine a non infrangersi mai - la Juventus di Marcello Lippi.

Il Borussia spinge ferocemente, giocando sopra ritmo. Una di quelle cose che noi italiani non siamo mai riusciti a decifrare: quando usciamo dai confini vanno tutti al doppio. Ma non si potrebbe allenarci come loro, per fare altrettanto? Comunque il punto è un altro. Jugovic borseggia un pallone. La muraglia sugli spalti mugugna. Accanto c’è Paulo Sousa, un tizio portoghese dal capello fluente e il piede educato. Reclama la sfera dal compagno meno nobile, che gliela affida. Esterno destro telecomandato in avanti, non per respirare e basta, ma per far sanguinare.

La raccoglie un ragazzino di ventun anni. Anche lui ha i capelli lunghi, seppur molto più ondulati rispetto all’effetto piastra del lusitano. Sulle spalle porta il dieci, un numero che incede distribuendo spalle ricurve sotto il peso della responsabilità. Sopra c’è scritto Del Piero. Alessandro è il nome. Un fuscello tutta tecnica che arriva da Conegliano. Stasera è la sua prima partita in Champions.

Alex avanza lungo la fascia sinistra, poi punta l’area. Avesse il tempo, forse penserebbe a quel vecchio adagio sui cani e i loro padroni. Sapete, no? La questione che si assomigliano e si pigliano. Ecco, probabilmente il cane di Jurgen Kolher dev’essere cugino del mastino dei Baskerville. Pessimo tempismo trovarselo davanti, penserebbe Del Piero. Ne avesse il tempo.

Lo spazio della ragione è asfittico. Meglio lasciare che prevalga l’intuito. Alessandro punta il guardiano teutonico, poi vira con decisione verso destra. Per un istante considera l’idea di sterzare a sinistra. Fateci caso, gustandovi la scena al rallenty. è un movimento impercettibile, eppure decisivo. Una di quelle rare cose che succedono anche se ti sembra che non siano avvenute. Roba da labirintite acuta. Alex rientra ancora verso destra, procurandosi lo spazio ideale. Ancora non lo sa, ma quel vertice dell’area diverrà la sua mattonella elettiva. Mamma intanto allunga il filo della cornetta: “Sì, non veniamo, ma se vuoi te lo passo”. Ipotesi che dribblo imitando quel ragazzino sul campo.

Kohler ha definitivamente perso il tempo. Si trova metafisicamente già al bar a tracannare avidamente birre scure, così da deglutire la beffa. Alex invece ha un affresco nella mente. Perché segnare bene significa pensare bene. Lascia partire il suo destro. La traiettoria è indecifrabile. Il pallone si impenna, poi acquista velocità e si carica d’effetto nella discesa. Dritto sotto l’incrocio, sul secondo palo.

Juve in vantaggio. Bruno Longhi che non ci capisce più nulla. A casa, la gente premuta contro le tv a cassettoni strattona per la maglia i parenti: "Ma che ha fatto?", si chiedono tutti, trasecolati. Ora anche mamma attacca: "Si, buona notte, ti devo richiamare".

Me lo chiedo anch’io. Avevo dieci anni e il calcio si era infilato nelle mie piccole vene nell’estate maledetta di Usa ’94. Osservatore vorace, cercavo di intuire la mia affinità con questa o quella squadra, divorando tonnellate di partite diverse. Papà tifava Inter, ma quando gli dissi di cambiare canale rimase per dieci minuti con gli occhi sgranati. La mattina dopo, a scuola, non si parlava d’altro.

"Ma che ha fatto?". Il primo vero gol alla Del Piero, ecco cosa. Un marchio scolpito a fuoco su una segnatura. Un modo di andare a rete personale, intimo come un dipinto. Le vittime successive si chiameranno Steaua Bucarest e Glasgow Rangers.

Seguiranno numerose altre pennellate, anche se il tratto non sarà eterno.

Tutte le cose più belle hanno su impressa la data di scadenza. Averle gustate fresche, a prescindere dal tifo e dalle etichette, è stata una goduria impagabile.

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