Serve una Fede eterna per trasformare una parolaccia in oro

Dallo sfogo di Rio e l'offesa social a un tifoso al trionfo ai mondiali vasca corta di Windsor

Serve una Fede eterna per trasformare una parolaccia in oro

Ci sono sportivi che lasciano dopo aver raggiunto il sogno della vita. Ci sono altri per i quali il sogno è non lasciare. Federica Pellegrini appartiene a questa categoria. Anzi, Federica è questa categoria. Perché è un attimo affiancarle Valentino Rossi e Francesco Totti e altri testardi dello sport, ma non è così, non si può, sarebbe ingiusto.

Troppo distanti queste discipline sia per onori e guadagni che per divertimento e fatica. Il nuoto in cui si sposta acqua ogni santo giorno che Dio manda in terra non è il calcio che ogni giorno abita le nostre vite e non è la moto che regala emozioni ad ogni tocco di acceleratore. Il nuoto che inghiotte nella fatica non è il calcio che la divide fra undici e non è la moto che le fatiche fisiche invece allevia. Il nuoto che non ha pietà davanti alla carta d'identità non è il calcio che chiude spesso un occhio e non è la moto che ne chiude due.

Federica l'altra notte ha vinto i 200 stile nel silenzio lontano di una gara in Canada, mondiali in vasca corta (25 metri) di Windsor, nell'immaginario una kermesse meno nobile rispetto a quella che si tiene nelle piscine lunghe il doppio. Ma è un immaginario distorto che può sembrare tale solo a chi il nuoto lo riscopre di tanto in tanto. Federica non solo ha afferrato l'unico oro mondiale che ancora le mancava, ma per consacrarlo, dimostrando quanto sia in errore chi crede che vasca corta corrisponda a meno fatica e meno gloria, l'ha ottenuto mettendosi dietro la lady di ferro di questo sport, Katinka Hosszu, tre volte campionessa olimpica a Rio.

Rio e le delusioni. Rio e quel bronzo sfuggito alla Pellegrini per 26 millesimi, Rio e i pensieri scuri, la voglia di mollare affidata a internet e all'improvviso quel «coglione!» scritto, ma in fondo urlato, sui social. Era successo che, all'indomani del flop olimpico nei suoi 200, Fede aveva deciso di rinunciare ai 100 per preservarsi in vista della staffetta 4x200. Solo che un tifoso su twitter le aveva risposto che no, avrebbe dovuto dare il buon esempio e non mollare. Da qui il colorito aggettivo all'indirizzo del poveretto. Ora ci sarebbe da erigere un monumento a quel poveretto. Chissà che il suo affondo non abbia contribuito a scuoterla e a farle sgombrare il campo dai pensieri fumosi che le affollavano la mente.

Nella notte dopo la gara Fede aveva infatti scritto su instagram parole che facevano temere l'addio fosse vicino. «Fa così male questo momento che non potrei descriverlo». Parole di sconforto che avevano ripercorso i quattro anni passati a cercare la preparazione migliore per inseguire la medaglia sfuggita nel disastro di Londra 2012. «Non è il dolore di una che accetta quello che è successo» aveva proseguito, «anzi, è il dolore di una che sa cos'ha fatto quest'anno... il mazzo che si è fatta... I pianti per i dolori e la fatica sentendosi la mattina come se ti avessero appena preso a pugni». E aveva concluso: «Ho combattuto ma purtroppo ho perso, forse è tempo di cambiare vita... forse no... certo che un male così forte l'ho sentito poche volte». Poi era arrivato il tweet del malcapitato di turno e un aggettivo genitale ha riacceso la sua voglia di sfida.

Adesso Fede guarda il proprio tempo (1'51''73, neanche un respiro sopra l'1'51''17 con costume gommato che nel 2009 le era valso il record del mondo) e dice «questa medaglia chiude il cerchio di una carriera», dice «grazie al mio allenatore, a Matteo Giunta, assieme abbiamo preparato la gara

perfetta perché questa è una medaglia (poi è arrivato anche l'argento nella 4x100 sl) frutto della fatica, del sacrificio e della voglia di non mollare mai che anche a 28 anni fanno parte del mio dna». Potenza di una parolaccia.

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