Ucciso l'atleta Schwazer Si deve salvare l'uomo Alex

L'ultima ombra sulla vicenda: la marciatrice cinese positiva ai mondiali 3 mesi fa sarà in gara a Rio

Ucciso l'atleta Schwazer Si deve salvare l'uomo Alex

Benny Casadei Lucchi

nostro inviato

a Rio de Janeiro

Dopo il verdetto. Dopo quel filo tagliente teso a spezzargli le gambe e la corsa e le poche residue speranze. Dopo la serata e il cibo amaro mandato giù da solo in un ristorante di Copacabana che per lui non sarà mai spiaggia e feste e carnevale. Dopo tutto, Alex dice: «Non mi era sembrato che l'udienza davanti al Tas fosse andata male... così ho voluto crederci fino all'ultimo». Dice: «Abbiamo mostrato ai giudici documenti per dieci ore e di tutto questo non è rimasto nulla, solo grande amarezza». Dice: «Non conosco ancora le motivazioni, ma a quanto pare devono essersi limitati agli aspetti tecnici. Che posso dire? Che ci credevo ai Giochi, che ero fiducioso, alla fine, di poter partecipare. È un anno e mezzo che lavoro e faccio sacrifici, anche economici (50.000 euro le spese sostenute personalmente)».

E adesso il problema non è più sportivo. Adesso è umano. Alex Schwazer andrebbe, sì, salvato come atleta, ma il condizionale è d'obbligo perché nessuno sportivo ad alto livello agonistico può essere salvato, aiutato, protetto, preservato se addosso gli è calata una mannaia lunga 8 anni di squalifica. Anche perché il problema non è più se sia colpevole o innocente, se sia complotto o vero doping, il problema, adesso, urgente e importante, è salvare l'uomo. Dopo una mazzata simile, Alex andrebbe pedinato, controllato a vista e non per scovare chissà quale altre porcherie, bensì per proteggerlo da se stesso e dal mondo e dalle ombre dei pensieri pesanti che sicuramente, ogni mattina al risveglio, ogni notte prima di coricarsi, gli si annideranno in testa.

Dice: «Dopo aver parlato con i giudici, lunedì, ho detto a Donati (il suo allenatore e difensore e da sempre paladino della lotta al doping) che dopo i Giochi avrei smesso... ma no, ma no mi ha risposto tre anni ancora e ti dedicherai al triathlon...». Ecco. Sì. Forse. Chissà. Probabilmente Donati è già al lavoro per salvare l'uomo dalle ombre e dai pensieri. «Lui è speciale per me. Pensate che prima della sentenza mi aveva proposto di organizzare un allenamento-gara in concomitanza della 50 km... però no, non sono uno che fa così...».

Colpevole, innocente, vittima di un sistema, uomo bipolare che ti convince di essere pulito e invece si droga e drogandosi trascina con sé, come in un mulinello in acque tempestose, tutte le persone che credono in lui? Non si riesce a capire, non si sa, forse non si saprà mai, perché è davvero difficile credere completamente a lui e completamente ai segugi antidoping della Iaaf che l'hanno incastrato. Troppi gli interrogativi, troppe le inesattezze procedurali. Per esempio, la sua provetta non anonima, la tempistica così allungata da non permettergli di difendersi completamente in vista di Rio. Per esempio le novità emerse nell'udienza di lunedì. Il famigerato controllo del 1 gennaio era stato ordinato dalla Iaaf il 16 dicembre, il giorno stesso della deposizione dell'atleta in tribunale a Bolzano, in qualità di teste, nel processo contro due medici e un dirigente sanitario Fidal. E uno dei medici, ora, lavora per l'antidoping Iaaf.

Dice: «Se quella sera di dicembre avessi preso testosterone sarei dovuto andare a dormire, altro che alcolici. Invece sono tornato alle 4, ci sono i testimoni». La vera verità è che adesso il Coni, il presidente Malagò, tutti coloro che credono o fanno finta di credere che l'oro meraviglioso conquistato da Schwazer a Pechino sia pulito, dovranno farsi carico di indagare la vicenda della positività dell'altotesino e, soprattutto, proteggere l'uomo. Alfio Giomi, presidente dell'atletica italiana, persona appassionata e sobria nelle uscite, ha subito tracciato la via: «La vicenda è tale da imporre una riflessione, che arriverà a tempo debito, a Giochi conclusi». Ecco. La segua anche il Coni.

Anche perché fa pensare a due pesi e due misure quanto successo proprio nella marcia. A Roma, il 7 maggio, il giorno prima dell'impresa di Alex, vittorioso al rientro dopo oltre tre anni di squalifica, oro alla cinese Liu Hong, numero uno della specialità allenata dall'ex tecnico di Alex, Sandro Damilano. Addio titolo mondiale e stop di un mese. Colpa di un farmaco per la tonsillite.

Trenta giorni di stop. Addio trofeo. Curioso che un'atleta esperta a tre mesi da Giochi si prenda un vasodilatatore. Curioso che nel suo caso non ci siano stati ritardi di comunicazione. Tutto velocissimo. E lei a Rio c'è. E ci resta.

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