Alessandro Campi è professore di Storia delle dottrine politiche all'Università di Perugia e direttore dell'Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, aprirà il 10 dicembre il convegno dell'Università di Macerata dedicato ai cento anni dalla nascita di Rosario Romeo.
Professor Campi, lei ha curato l'introduzione alla raccolta, appena pubblicata, delle voci sul Risorgimento scritte da Walter Maturi per la Treccani. Perché il Risorgimento è un tema ancora attuale?
«Lo considero una riserva ancora valida di valori e idealità - libertà, indipendenza, emancipazione sociale, pluralismo delle idee, senso della comunità - alla quale, non a caso, gli italiani si sono sempre rivolti nei momenti difficili della loro storia. Ad esempio, dopo la fine della dittatura. Gli antifascisti dell'epoca, diversamente da molti di quelli attuali, si consideravano a vario titolo eredi del Risorgimento, le cui vicende e personaggi conoscevano a menadito. Senza considerare lo slancio passionale, tutto rivolto al futuro e quasi religioso, del Risorgimento. Ne avremmo bisogno oggi!».
Eppure a lungo il tema risorgimentale è stato espunto dal dibattito pubblico e storiografico. Secondo lei perché?
«C'è stata una lunga stagione troppo segnata dalla magniloquenza delle cerimonie ufficiali e delle ricorrenze di Stato obbligate. E questo ha sicuramente contribuito a incrinare il suo radicamento della coscienza popolare. Ad un certo punto si sono anche affievoliti, per motivi generazionali, memorie famigliari e ricordi collettivi che duravano da almeno centocinquant'anni. Ci sono poi le colpe della scuola, che ha smesso di interessarsi a quel periodo storico considerandolo troppo intriso di sentimentalismo e retorica. Infine sono emerse tendenze storiografiche che lo hanno liquidato come la matrice simbolico-ideologica del fascismo, con tutto quel parlare di morti in battaglia per la patria...».
Esiste una rimozione del Risorgimento e poi esistono dei santini risorgimentali che emergono da una certa manualistica...
«Bisogna costruire un racconto pubblico di quelle vicende che vada oltre l'agiografia o il didascalismo. Il Risorgimento lo hanno fatto sostanzialmente i giovani: è stato un deposito di biografie avventurose ancora oggi piene di fascino. Più che la politica e la diplomazia, nel suo svolgimento hanno contato la musica, la letteratura e la dimensione artistica. Ha avuto inoltre una dimensione europea e transnazionale, tutt'altro che provincialistica. Ma queste cose bisogna saperle raccontare anche al grande pubblico. Bisognerebbe trovare il modo di sintonizzarsi con la sensibilità contemporanea... Prendiamo i musei del Risorgimento... Sono stati concepiti decenni fa, mostrano soprattutto quadri, armi, bandiere, documenti e reliquie. Ma oggi la cultura museale si basa molto sulla virtualità e l'interattività, sull'immersività».
Esiste, è l'opposto dei santini di cui le chiedevo prima, un preconcetto sudista contro il nostro Risorgimento, una sorta di larvata ostilità?
«Il Risorgimento non è stato una marcia trionfale, tantomeno una vittoria del bene contro il male. Ha avuto pagine controverse e oscure. È stato anche un conflitto civile. Ma il suo esito, la nascita dello Stato unitario, non può essere messo in discussione sul filo di nostalgie anacronistiche. Da meridionale, il rimpianto per i Borbone e la loro ottusità politica davvero non lo comprendo. Come mi convince poco la trasformazione del banditismo in patriottismo anti-unitario sostenuto da una profonda devozione religiosa e da una solida base popolare. I briganti erano in massima parte grassatori manovrati politicamente dagli ambienti della nobiltà meridionale più retriva... Quanto al brigante come ribelle contro il sistema è un topos ideologico marxista-rivoluzionario che curiosamente i reazionari odierni hanno fatto proprio».
Ci sono fratture che il Risorgimento non è riuscito a sanare. Pesano ancora oggi?
«Non c'è stato bisogno degli odierni revisionisti filo-borbonici per sapere che il Risorgimento ha avuto un esito politico-sociale diverso da quello che avevano sperato i suoi fautori. C'è tutta una pubblicistica oggi dimenticata che già nei tre decenni dopo l'Unità lamentava i ritardi nello sviluppo economico del Paese, le eccessive differenze sociali e territoriali, la mancata costruzione di uno Stato forte e autorevole, la corruzione nel settore pubblico, ecc. Da qui l'idea del Risorgimento tradito. La verità è che spesso si imputano al Risorgimento colpe e responsabilità che sono state delle generazioni successive».
Ci sarà ai primi di dicembre un convegno per celebrare i cent'anni di Riccardo Romeo, uno dei nostri massimi storici del Risorgimento. Qual era la sua lezione?
«Da storico dell'economia di formazione ha spiegato con dovizia come proprio l'obiettivo dell'Unità nazionale abbia favorito la modernizzazione, anche in senso industriale, di un Paese altrimenti arretrato come era l'Italia politicamente frammentata del tempo».
Romeo si è occupato a lungo di Cavour. Che immagine ci ha dato dello statista?
«La sua biografia di Cavour ancora oggi impressiona, per mole e sensibilità storica. È vergognoso ma forse eloquente l'oblio che è calato su questo lavoro, perfetto pendant del Mussolini di De Felice. Cavour ne esce come il regista politico del Risorgimento, come una figura di taglio europeo, come un realista pragmatico ma ispirato da un grande disegno politico-ideale».
Cosa dovremmo salvaguardare della sua lezione?
«Romeo era un laico rispettoso dei valori religiosi, un europeista che credeva nella forza del sentimento nazionale, un liberale intransigente ma aperto al dialogo con le altre culture politiche, un accademico che non disdegnava l'attività pubblicistica e la polemica.
Era inoltre un uomo di grande coraggio: si oppose alle derive sessantottesche nell'università e nella cultura. Contro la demagogia pseudo-rivoluzionaria trovò un rifugio accademico alla Luiss e un riparto intellettuale al Giornale di Montanelli».
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