Stalin, Lenin, lambrusco e centralismo democratico Il ritorno dei nostalgici

No al dialogo col Pd: «Noi restiamo un partito marxista, loro sono dentro la logica del mercato». Pressing su Prc: «Torniamo insieme»

da Roma

Toh, chi si rivede! Il «centralismo democratico» di leniniana memoria. Si stupiscono e fremono i giornalisti presenti al quinto congresso del Pdci, chiusosi ieri a Salsomaggiore con la conferma alla guida di Oliviero Diliberto. Ma mostrano di avere la memoria un tantinello corta. Visto che già a Bellaria, nel 2001, si decise addirittura di inserire la ferrea disciplina del Pcus nello statuto, cosa per la quale Nerio Nesi, ex-banchiere approdato tra i neocomunisti dopo travagliati passaggi politici, prese cappello e abbandonò la compagnia.
Oggi a ripetere il suo gesto pensano forse i fan delusi di Katia Belillo, ex-ministro judoka, invitati a fare ingresso con misera percentuale nel «comitatone» centrale fatto di ben 520 componenti, in omaggio alle teorie tardo-brezneviane della defunta Urss. «Ma quale centralismo democratico! È centralismo autoritario», protesta l’ex-ministro gettata nell’ombra assieme al suo scarso 12%. Fatto sta che Diliberto è decisissimo: «Negli ultimi anni questo principio del comunismo non era più rispettato, mentre ora lo dovrà essere, pena sanzioni severe. Non intendo andare all’incontro con il Prc in ordine sparso!». E mica finisce qui il programma d’urto dell’ex-ministro della Giustizia che si gloriò di aver recuperato la scrivania di Togliatti in via Arenula, togliendole ragnatele e incrostazioni dovute al suo invio nelle cantine. Ai «fannulloni», quei dirigenti locali del partito «che passano il 90% del loro tempo a litigare per posti che non contano nulla», Diliberto minaccia il cartellino rosso e forse qualcosa di più visto che - scherzando - annuncia che «la ghigliottina è qui fuori». Mentre a chi si iscrive ma non paga la quota garantisce l’espulsione immediata.
Insomma, come accade sempre quando un partito comunista entra in crisi, la soluzione è stringere i ranghi e allontanare i «traditori», gli scansafatiche, i menscevichi e poi pure i trotzkysti che fanno - naturalmente - il gioco del grande capitale. Che il gioco sia cambiato un tantino dal 1917, Diliberto mostra di non accorgersene. O meglio, lo accetta solo perché a breve si torna a votare per le Europee e lui - già con la soglia al 3% - rischia di restare fuori anche da Strasburgo dopo essere stato espulso dalle Camere di Roma. E allora ecco la necessità di giungere a patti con Rifondazione, cosa che Lenin si sarebbe ben guardato dall’ipotizzare. Spiegando paziente, da professore qual è, all’alunno Vendola, segretario in pectore del partito che fu di Bertinotti, che una intesa ci sta tutta: «Sarebbe - spiega, perorando una riunificazione dei due partiti - un test fondamentale per sapere se siamo ancora in vita, mentre due liste comuniste sarebbero fatalmente in lotta tra loro...».
L’idea di costruire invece una «cosa» nuova, dialogante col Pd, invece, non la vuol prendere nemmeno in considerazione: «Non c’è uno spazio intermedio, non c’è ipotesi per una nuova lista arcobaleno che non solo è sbagliata ma non esiste in natura! Senza contare che noi restiamo un partito marxista-leninista che vuole il superamento del capitalismo mentre il Pd resta dentro la logica del mercato». Insomma, all’arrembaggio, “duri e puri” come ai tempi dei primi soviet. Senza rinunciare alle vecchie parole d’ordine, prima tra le quali il centralismo democratico (e cioè, discutere pure all’interno del partito in maniera riservata, ma seguire poi le indicazioni date senza esitazione). Senza esagerazioni, tipo Stalin santo: «Penso che il primo a rivoltarsi nella tomba sarebbe proprio lui. Spero che non chiedano di fare santo anche me quando sarò morto».

Manca l’autocritica, altro cavallo di battaglia dei bolscevichi? Macché. Anche quella Diliberto l’ha tirata fuori. E a chi protestava due giorni fa per la mancanza di lambrusco, ha concesso - cambiando parere - che «non fa schifo. Anche se il Cannonau è molto ma molto meglio...».

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