Da Stevenson a Henry Miller: quando la trasgressione diventa arte

Esiste un legame tra stati alterati e creatività. Ma alla fine conta la capacità di sedersi e inventare (meglio da sobri)

Da Stevenson a Henry Miller: quando la trasgressione diventa arte

A leggere le biografie di artisti e le loro lettere, parrebbe che la relazione tra creatività e sostanze stupefacenti sia imprescindibile. Genio e sregolatezza: il non celato compiacimento di un'esistenza fuori dalla normalità borghese come autentica condizione per definirsi «artista». D'altra parte, osservando il pantheon moderno di scrittori, pittori, musicisti, di cui abbiamo notizie documentate, sono molti e grandi coloro che hanno fatto uso di sostanze stupefacenti.

Nelle loro storie, non si coglie nessuna remora moralistica per l'assunzione di droghe, che, anzi, è un necessario comportamento eversivo. Dal Club des Hashischins, frequentato da nomi grandiosi della cultura francese Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé - alla Factory newyorkese di Andy Warhol, spesso a rischio di chiusura perché c'era sempre chi sosteneva che fosse più un luogo di spaccio che di attività artistica, il passo è breve. E, poi, interessante la confessione di Robert Louis Stevenson, in cui ammetteva che, senza l'allucinazione di droghe, non sarebbe stato in grado di sdoppiare Dottor Jekyll in Mr. Hide. Oppure Van Gogh: l'ossessione per il colore giallo sembra gli sia stata provocata da uno sfrenato abuso di assenzio, la droga dei poveri, che causa quel disturbo visivo chiamato xantopsia, la visione gialla di oggetti bianchi.

La rassegna di nomi che vede unite creatività e sostanze stupefacenti potrebbe andare avanti per pagine e pagine, ma la terminiamo con il recente Manuale per giovani artisti. L'arte raccontata da Damien Hirst, appunto un libro del super pagato Hirst, che è tutto un'enfasi retorica inneggiante le droghe, indispensabile viatico per il giovane artista.

A questo punto, in cui parrebbe che se non ci si droga non si è artisti, ricorderei una frase di Henry Miller che, quanto a trasgressioni aveva poco da invidiare ad altri. L'autore di Tropico del Cancro diceva che ci si può avventurare per le strade del mondo andando incontro alle più sfrenate trasgressioni, ma poi si deve avere una sedia sotto il sedere, e fermarsi, per poter raccontare le proprie meravigliose trasgressioni. Ciò significa che, al di là di tutte le celebrazioni per le sregolatezze della vita, l'arte chiede una traduzione formale dell'immaginazione, comunque essa sia stata causata. Ma anche lo stesso immaginario, deformato da sostanze allucinogene, come accade, per esempio con assoluta chiarezza, nell'arte psichedelica o nei testi della beat generation, deve potersi affidare a un io in grado di dominare la propria visione alterata per dare una struttura espressiva estetica alla propria esperienza vissuta, in cui il contesto reale e quello allucinato si sono con-fusi.

Ovvio: non è sufficiente drogarsi per essere artisti, anche se è altrettanto evidente che tutta una poetica che si ritrova nei nomi prima ricordati cerca nelle sostanze stupefacenti quella capacità di superare il principio di non contraddizione del pensiero razionale, per esprimere in un'unica forma contenuti distanti e inconciliabili. E tuttavia sono convinto che il processo creativo nell'atto stesso dello scrivere, del dipingere abbia bisogno di una sovrumana capacità di formalizzazione del pensiero, affinché questo diventi poesia, pittura, musica.

Si consideri una della più belle (la più bella?) poesia moderna: Le cygne di Baudelaire, nei Fleurs du mal, che egli stesso dichiara di aver scritto sotto l'influenza di sostanze stupefacenti. La poesia ha una struttura logica formidabile, costruita attraverso un intreccio perfetto di simboli e concordanze, che consente una visione straordinaria dell'amore, del dolore, della bellezza.

Genio e sregolatezza: ma c'è da chiedersi, infine, se il processo di produzione artistica di questi geni sregolati sia tanto diverso negli esiti da altri geni assolutamente metodici nella loro creatività, come Thomas Mann, che scriveva in ore precise del mattino un numero preciso di pagine, come Goethe, che non tollerava intrusioni di alcun tipo nella puntuale quotidianità dedicata al suo lavoro creativo, come Mahler, che s'isolava

dal mondo in un ascetismo monastico quando doveva comporre musica. E la lista di questi «metodici» non è meno lunga di quella degli «sregolati». Semplicemente, figure geniali: la sregolatezza è un accessorio non necessario.

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