Questa volta c'è Alberto Arbasino ad agguantare quel Premio PEN conteggiato a sorsi sulla piazza di Compiano, schizzata di sampietrini sul vuoto della Val Taro. C'è, con «L'ingegnere in blu» (Adelphi), la lunga conversazione con Carlo Emilio Gadda, tra «gossip e chiacchiera, insieme a colazione o facendo notte». Quattrocentotrentatre voti, «grazie, l'altra volta ero assente giustificato». Problemi logistici e di salute. Applausi. Il gusto di raccontare, l'ironia, il parlare «a bassa voce» per non disturbare il chiacchiericcio di una piazza satura. Niente ruoli, i contatti scivolano, autori e pubblico gomito a gomito. Ma vestiva davvero in blu Gadda? «Certo, anche per venire in trattoria. Abito blu, lucide scarpe nere, cravatta e fazzoletto bianco. Un vecchio signore milanese». Ecco il ritratto schizzato da uno dei nipotini di Gadda, tra l'isolamento dello scrittore e dell'uomo. Poi la consegna del premio, «il successo del libro ci ha stupiti: neanche l'avevo presentato in televisione che già eravamo alla terza edizione. Poi sono venute le altre». È la forza dell'«antipremio», dello scrittore premiato dagli scrittori: «Il PEN non ha il compito di vendere libri, ma promuovere la cultura - tuona Lucio Lami, anima, presidente onorario e inventore del Premio - Non possiamo farci promoter politici e nella nostra peculiarità gli editori non ci amano. Quando pronunciano la parola mercato li mandiamo a quel paese». Mica facile campare, ma Lami incalza su quella passione che punta anima e qualità: «Abbiamo premiato Tabucchi seduto sui gradini della piazza e la Tamaro quando ancora non la conosceva nessuno».
Arriva anche il messaggio del Ministro Sandro Bondi: viva il premio che promuove la libertà d'espressione e gli scrittori carcerati. Che «rappresenta un momento fondamentale per la divulgazione dei libri e si distingue per autonomia e autorevolezza». Bella soddisfazione, «considerato che noi i politici non li invitiamo mai» provoca Lami, un innamorato che si porta il premio a Compiano e lo incornicia. Tra il caffé letterario e l'attesa. I libri in mano alla conta dei voti, nessun autografo prima, solo il vento che rallenta la voce. Il notaio che apre, la cinquina a calare. E i numeri. Un'ora e mezza e il vincitore sta là, una riga tirata e la somma. «Tutti e cinque i finalisti sono vincitori», ancora applausi. Le signore apprezzano il giovanissimo Paolo Giordano, quarto classificato con «La solitudine dei numeri primi», chiedono consigli da genitori: «Nessun monito o messaggio - glissa lui - C'è solo mancanza di fantasia più che di comunicazione nel mettersi nei panni dei figli e viceversa». Mentre Fernando Bandini, terzo con le poesie di «Dietro i cancelli e altrove», ironizza sulla sua condizione di poeta che scrive in latino e traduce in italiano. È la leggerezza che infilza i numeri e stempera il gioco. Acuto e arguto Bandini, che nel plancton del latino sugge e prolifica.
Manca Nelo Risi, assente più che giustificato, ma il suo «Né il giorno né l'ora» arriva secondo. Il colpo di reni di una raccolta scritta in tempi brevi come se le poesie che la compongono fossero spinte da una vertigine. Che aggancia Compiano, i suoi vicoli stretti, il Museo degli Orsanti magici e fantastici, la vista allungata su una valle scoperta. Numeri, primi e secondi, mai soli in questa partita a nervo scoperto, dove dopo prendi sotto braccio l'autore perché risponda alla domanda che credi solo tua. Giampaolo Pansa firma la copia de «I gendarmi della memoria», un tipo gli parla fitto all'orecchio. Arriva quinto, ma è solo un dettaglio. Il calore della piazza corteggia la sua storia, la provocazione lontana, il suo coraggio di dire tutto e adesso: «Crollata l'Unione Sovietica, hanno scoperchiato la lastra e hanno visto che sotto non c'era nulla. - non fa sconti Pansa - Allora si sono attaccati all'osso dell'antifascismo diventando i gendarmi della memoria».
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