Matteo Sacchi
Non è facile fare storiografia militare in Italia. Bisogna sempre fare i conti con un elefante piazzato nel bel mezzo della stanza e di cui nessuno parla. Il tema lo ha chiarito bene qualche anno fa lo storico e archeologo Andrea Santangelo in un suo volume di cui già il titolo era un buon inquadramento di questo pachiderma invisibile che inquina il «lavoro»: L'Italia va alla guerra. Il falso mito di un popolo pacifico (Longanesi). Questo falso mito si è declinato nel corso del tempo in svariate forme. Pensate solo alla definizione delle truppe di occupazione italiane in Grecia durante la Seconda guerra mondiale: l'armata s'agapò (l'armata «ti amo»). Quando nel quarto numero della rivista Cinema Nuovo, correva l'anno 1953, diretta da Guido Aristarco, il critico Renzo Renzi scrisse un soggetto intitolato così, e ispirato da un racconto del pittore Renzo Biasion scoppiò lo scandalo. Renzi e Aristarco vennero arrestati e rinchiusi nel carcere militare di Peschiera per 40 giorni. Il tribunale militare di Milano condannò i due ad alcuni mesi di prigione per vilipendio delle forze armate. Il processo produsse un vasto movimento di opinione a favore degli imputati... Ecco, l'elefante invisibile aveva sfondato la vetrinetta dell'orgoglio patrio.
Ma il tema c'era ed era sentito. Gli italiani non combattono? Gli italiani sono imbelli? Gli italiani sono buoni e pacifisti e quindi molto meglio di tutti gli altri popoli? Sotto traccia c'erano tutte queste discussioni...
E la questione non dipende, badate bene, dalle brutte batoste ricevute nel secondo conflitto mondiale. È stato appena pubblicato un libro interessante a cura di Mario Isnenghi e Paolo Pozzato. Si intitola I vinti di Vittorio Veneto (il Mulino) e raccoglie scritti e lettere di ufficiali e soldati austroungarici della Prima guerra mondiale. Dal testo emerge con chiarezza una cosa: l'imbarazzo dei nostri avversari nell'essere stati battuti da un popolo che, nella considerazione collettiva, non è un popolo guerriero. La sconfitta ad opera dei Wälschen (i «fedifraghi») risultava talmente intollerabile che in moltissime lettere si preferiva pensare fossero stati gli aiuti statunitensi o inglesi a far crollare il fronte... Oppure si cercava un colpevole interno: gli austriaci accusano gli ungheresi e viceversa. Ben pochi sono disposti ad ammettere il valore dei soldati italiani. Del resto, a ruoli invertiti, per gli italiani la battaglia è percepita non tanto come una semplice vittoria, ma come un lavacro per sconfitte che vanno da Novara a Caporetto e passano per Custoza e Lissa. Eppure le guerre risorgimentali sono un banco di prova in cui spesso gli italiani si battono bene e del resto glorificare il nemico (parlando per Vienna) sarebbe anche un modo di glorificare se stessi, e invece... Questa era la prova che, probabilmente, l'elefante invisibile dell'essere un popolo che non si batte era già lì, piazzato a far danno nel salotto della nostra autostima sin prima del Risorgimento. Lo dimostra il bel saggio dello storico Hubert Heyriès, Italia 1866. Storia di una guerra perduta e vinta. Spiega come furono per primi gli italiani a dar vita allo psicodramma della «sconfitta» anche se il nostro esercito e la nostra flotta, che pur avevano subito dei rovesci, erano stati tutt'altro che annichiliti.
Allora il germe del «complesso di inferiorità» va cercato ancora più indietro nel tempo. Il 13 febbraio 1503 nella piana tra Andria e Corato 13 cavalieri italiani sfidarono 13 cavalieri francesi in quella che è passata alla storia (non senza litigi) come disfida di Barletta. Il fatto militarmente era irrilevante. Nasceva da un'ingiustificata spocchia transalpina e si trasformò per gli italiani in un'enormità, celebrata per secoli. Ma proprio questa celebrazione era il segno che, con le così dette guerre d'Italia, la penisola aveva perso la sua centralità politica e si era ritrovata alla mercé dei più organizzati eserciti nazionali di Francia e Spagna. Ecco forse l'origine di quel senso di malessere ogni volta che si parla di storia militare italiana: nasce addirittura alla fine del Quattrocento. Ma come giustamente hanno intuito alcuni studiosi, primo fra tutti Piero Pieri con La crisi militare italiana nel Rinascimento, nei suoi rapporti colla crisi politica ed economica (1934), si è molto più spesso trattato di una debolezza politica più che militare.
Nonostante questi meritori sforzi il complesso di inferiorità, che sia declinato in piagnisteo o in millanteria non importa, è rimasto ad inquinare se non il dibattito storico almeno la vulgata. Ma è ora di riportare il dibattito nell'alveo corretto. Ecco perché il Giornale ha deciso di pubblicare la collana Storia militare d'Italia che arriverà in edicola con il nostro giornale a partire da venerdì. Il primo tomo della collana, in regalo con il nostro quotidiano, è proprio a firma di Piero Pieri (1893-1979), il padre della storiografia militare italiana, ed è il primo volume di uno dei suoi testi più importanti: Storia militare del Risorgimento. Il secondo volume sarà in edicola sempre in accoppiata con il nostro quotidiano da sabato a 9,90 euro (più il prezzo de il Giornale).
Nel resto della collana, composta da trenta volumi, testi di alcuni dei migliori storici italiani (da Gioacchino Volpe a Gianni Oliva) e stranieri (dal sopra citato Hubert Heyriès con il suo Italia 1866 a John Whittam con Storia dell'Esercito Italiano). Insomma tutto quello che serve a ragionare di fatti, non di miti, fintamente pacifisti o velleitari che siano.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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