Pedro Armocida
da Roma
Lo schermo è nero. Si sente solo il rumore della ghigliottina e il rimbalzare della testa. Prima una, poi unaltra, infine unaltra ancora. Forse è questa «immagine» finale di La Rosa Bianca-Sophie Scholl, grande lezione su cosa significhi far vedere veramente ciò che non si può guardare, che ha convinto la giuria dello scorso Festival di Berlino a premiare lemozionante film di Marc Rothemund per la miglior regia.
Il finale del film non è una sorpresa perché la condanna a morte di molti membri della Rosa Bianca è realtà, è storia. Parla di un gruppo di giovani, in maggioranza studenti universitari cattolici, ma anche evangelici, che nel 1943 in Germania, fantasticavano sulla caduta del Terzo Reich. Con uno strumento pacifico e ingenuo quanto pericoloso: linformazione attraverso una serie di volantini.
La Rosa Bianca-Sophie Scholl, che ora rappresenta la Germania nella corsa agli Oscar e che esce venerdì in Italia, ripercorre gli ultimi sei giorni, dal 17 al 22 febbraio 1943, della vita di una delle componenti principali del gruppo, Sophie Scholl, interpretata da Julia Jentsch, migliore attrice sempre a Berlino. Ma a differenza di altri film che trattavano lo stesso tema «il mio - dice il regista - si concentra solo su Sophie Scholl e la segue allinterno del suo turbolento viaggio emotivo verso la morte. Abbiamo ricostruito linterrogatorio con la Gestapo, il processo, riportato in vita il "giudice sanguinario" Roland Freisler e anche descritto la prigionia di Sophie a Stadelheim: la sua ultima sigaretta, laddio ai genitori, lultimo pasto, le preghiere e lesecuzione. Ma forse ciò che contraddistingue questo film dai precedenti è che abbiamo potuto consultare documenti ancora inediti negli anni Ottanta».
E, si può aggiungere, la peculiarità del film risiede nelletà del regista, classe 1968, che, nonostante la sceneggiatura sia del navigato Fred Breinersdorfer, porta al film una sguardo diverso. Concorda Rothemund: «La nostra generazione di registi non prova alcuna colpa verso il passato, ma allo stesso tempo ha la necessità di mantenere vivo, soprattutto nei giovani, il ricordo di quanto è accaduto. Oltretutto siamo forse gli ultimi che hanno ancora il privilegio di porre delle domande ai testimoni dell'epoca».
Così il film, avvalendosi anche di interviste ai familiari delle persone coinvolte, riesce a dare unimmagine inedita del movimento di resistenza, «perché - prosegue regista - è il tempo di far sapere che ci sono stati anche dei tedeschi che hanno combattuto il nazismo, pagando con la vita. Ma la bellezza della figura di Sophie sta nel fatto che non fu uneroina nata. Fu una persona normale capace di grande coraggio civile».
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