La condanna di Dreyfus: non errore giudiziario ma crimine antisemita

Alfred aveva 35 anni ed era l’ultimogenito di Raphaël Dreyfus facoltoso industriale ebreo di Mulhouse, in quella Alsazia che era passata sotto il controllo tedesco, lasciando agli abitanti francesi la scelta se restare, diventando sudditi tedeschi, o andar via, come avevano fatto i Dreyfus, trasferendosi a Parigi, dove Alfred aveva intrapreso la carriera militare. Brillante, anche troppo

La condanna di Dreyfus: non errore giudiziario ma crimine antisemita
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(Il giorno del disonore: leggi la prima puntata) Alsaziano ed ebreo. Il traditore cercato e voluto un po’ da tutti. Il traditore «perfetto». «Non mi uccido perché sono innocente. Devo vivere per dimostrarlo! Mi sarà fatta riparazione per questo affronto!» aveva ribattuto Alfred, in un moto d’orgoglio, di fronte agli artefici del complotto, che lo istigavano al suicidio. Le alte sfere militari però avevano scovato il colpevole, il «non francese», per qualcuno. E la parte peggiore dell’opinione pubblica non aspettava altro. Maurice Barrès, scrittore e politico nazionalista, affermava: «Che Dreyfus abbia tradito, non lo deduco dai fatti ma dalla sua razza».

Così nacque l’affaire Dreyfus, che ebbe un implicazioni storiche enormi, e di cui ancora oggi si vedono gli effetti. Fu il primo processo mediatico della storia e spaccò violentemente la Francia, squarciando le illusioni della Belle Époque alla vigilia del drammatico bagno di sangue della Prima guerra mondiale. Fece emergere la figura dell’intellettuale per antonomasia, Emile Zola, che difese Dreyfus col suo celebre J’accuse del 13 gennaio 1898, tanto da pagare il prezzo di un «esilio». Il processo durò 12 anni, attraverso da due condanne a una grazia presidenziale. Solo nel 1906, in seguito a un’ulteriore inchiesta, la condanna venne annullata, fu riconosciuto il vero responsabile del tradimento e Dreyfus, col grado di tenente colonnello, poté essere difficoltosamente reintegrato fino a combattere nella Grande guerra col «suo» esercito, istituzione che solo decenni dopo si è scusato ufficialmente per l’ingiustizia. La pubblicazione, nel 1930, delle memorie postume dell’addetto militare tedesco Maximilian Schwartzkoppen, confermò formalmente che la spia era proprio Esterhazy. Il caso però andò molto oltre la macchinazione e un clamoroso «errore». Di «crimine giudiziario» parla Clotilde Bertoni in «Nel nome di Dreyfus», ultimo solo in ordine di tempo di una miriade di libri dedicati a quello che la professoressa di Palermo chiama «un caso di coscienza». E sottolinea il fattore militarismo. L’affaire lasciò la Francia sotto choc, mostrando soprattutto all’opinione pubblica europea il sorgere di un odio anti-ebraico che era insieme antico e del tutto nuovo, e che dì lì a poco avrebbe condotto l’intera Europa - impegnata a bearsi della sua civiltà, della sua modernità - a macchiarsi delle leggi razziali, delle persecuzioni e infine degli orrori della Shoah (in cui morirà una nipote di Dreyfus, Madeleine Lévy). Il caso non fu solo un «giallo di fine secolo». Indro Montanelli scrive che «fu soprattutto il prodromo di Auschwitz perché portò alla superficie quei rigurgiti razzisti e antisemiti di cui tutta l'Europa, e non soltanto la Germania, era inquinata».

«Haute Trahison». Tutto era iniziato così. «Arresto dell’ufficiale ebreo Dreyfus» aveva strillato nell’autunno del ’94 La Libre parole, foglio politico antisemita, dando notizia dell’inchiesta e candidandosi a diventare una delle voci principali del partito ostile a Dreyfus, per lo più composto da reazionari e nazionalisti antisemiti, mentre dreyfusardi erano radicali, libertari e anticlericali. «Morte agli ebrei» aveva gridato la folla durante quella cerimonia di degradazione nel cortile dell’accademia.

E quando Dreyfus era passato - a testa alta - davanti ai giornalisti, il solito Barrès aveva preso un appunto: «Cosa ho da spartire con un tipo così, che avanza verso di noi con l’occhialino sul naso etnico e con l’occhio furioso e secco? Dreyfus non è della mia razza». (2.continua)

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