Lo storico del «complotto anglofilo»

Carroll Quigley nel 1966 per la prestigiosa Macmillan di New York pubblicò un tomo di 1348 pagine: Tragedy and Hope. Libro di una erudizione sconfinata, nel quale tra l’altro si prevedeva che la Cina avrebbe, dopo il 2000, rappresentato un problema maggiore della Russia. Se i puntigli e l’intento universale potevano far dire Quigley lo storico americano forse più simile a Spengler, ben altra era la sua praticità.
Il nostro insegnava alla Georgetown University, era stato professore ad Harvard e a Princeton. Per la qualcosa quanto si lesse nel suo libro fece più impressione. Il professore ammetteva infatti l’esistenza di un network, di una rete di insider che avrebbe pilotato i destini del mondo: «Esiste ed è esistito per generazioni un international Anglophile network... Sono a conoscenza delle azioni di questo network, perché l’ho studiato per vent’anni e per due anni nei primi anni Sessanta mi è stato concesso di esaminare le sue carte, i suoi incartamenti segreti». Se ne distingueva, è pur vero, per avere obbiettato all’idea che l’Inghilterra non dovesse federarsi all’Europa. «Ma la mia principale differenza d’opinione è che esso desidera restare sconosciuto; mentre io credo che il suo ruolo nella storia sia stato tale da dover essere conosciuto».
Seguiva un elenco di nomi obliati, ma i più importanti nella finanza e nella politica: «La branca newyorkese era dominata dagli associati della banca Morgan». A loro obbediva il «Council of Foreign Relations». E tra loro v’erano Allen e Foster Dulles, Russell Leffingwell, i Whitney, Douglas Dillon, Thomas Lamont. Lazard Brothers, la Morgan & Co., i Rockefeller la sostenevano materialmente. Essa aveva in Inghilterra il proprio ispiratore in Cecil Rhodes. Comprendeva Lord Milner, Curtis, Lord Lothian, e disponeva dell’esclusivo The Round Table Magazine e del «Royal Institute of International Affairs». La branca americana «estendeva la sua influenza attraverso... il New York Times, l’Herald Tribune, Christian Science Monitor, il Washignton Post...». Non c’è evento del ’900, in cui non ricorrano del resto questi nomi. E altri storici ammettono che la politica estera degli Stati Uniti fu appaltata ai soci della Morgan o agli Harriman.
Ma Quigley sosteneva che v’era un fine ulteriore rispetto a quello di far denaro. Quale? Orientare gli eventi così da favorire la Anglosaxon Idea, uniformarvi il Secolo. Spregiudicatezza, commerci con Hitler o complicità coi comunisti, ne sarebbero stati non il fine, ma i mezzi.
Gli italiani disputano dal liceo d’ideologie di sinistra e quindi di una storia provinciale e finta. Hanno ingigantito l’inessenziale, e figure di terza fila. Banalità fuorvianti, cimeli sentimentali, dispute esauste. Ecco la storia che piace agli italiani. Della storia americana sanno ben poco, se non banalità da rotocalco su Kennedy che piegano però ai loro tifi casalinghi. E che questi nomi dicano loro assai poco è prevedibile. E invece appunto sono tutti gli uomini che hanno fatto il Novecento quanto è stato un Secolo Americano. Comunque sia a scrivere frasi come quelle di Quigley sono anche in America per solito stravaganti, pasticcioni incolti. Egli era invece un’autorità. E quando un ex ufficiale della FBI, W.C. Skousen, gli chiese il permesso di pubblicarne alcune parti, Quigley avvedutamente rifiutò. Costui, incurante, le copiò in un volumetto: The Naked Capitalist. Ne vendette un’enormità. Nel frattempo il libro di Quigley era divenuto introvabile nelle librerie. Allen reiterò il successo miliardario con Not Dare Call It Conspiracy. Ma altri pratici effetti e verifiche il libro intanto li otteneva lo stesso.
Studente alla Georgetown University, Clinton, proprio lui, nel 1964, scriveva ad una amica: «Non ci crederai ma i professori vogliono che io mi candidi per una borsa di studio della Rhodes Foundation ad Oxford». Non credeva lì per lì di avere molte chance. Ma, aiutato da Quigley e Fulbright, a sua volta Rodhes Scholar, l’impresa riuscì. Spiega il suo amico Harold Snider: «Bill e io trovavamo Quigley affascinante, elettrizzante e brillante. Ci incoraggiò ad andare in Inghilterra per studiare ancora. So che scrisse delle lettere di raccomandazione per noi due e fu orgoglioso e contento che ambedue saremmo andati a Oxford. Il Professor Quigley fu il nostro mentore e il nostro amico. Lasciò un’indelebile impronta nelle nostre vite». Tutto questo accadeva negli anni 1966-67. Era appena uscito Tragedy and Hope, e il giovane Clinton nel 1968 veniva reclutato in quella Rhodes Foundation che era ad Oxford il fulcro inglese del network anglofono da lui descritto.
E del resto Clinton, uscito da Oxford, e divenuto governatore, mise a frutto le idee più spregiudicate di Quigley. Frequentò i salotti di Pamela Harriman e i moderati del DLC, Democratic Leadership Council, emanato dal suo ambiente. E così nel 1990 un articolo di Time spiegava: «Clinton è l’uomo perfetto per un’organizzazione che celebra l’etica del lavoro dell’uomo della strada, mentre dipende interamente dai cinquecento di Fortune per i suoi fondi». Il 6 novembre del 1992 divenne quindi presidente del DLC. E la Harriman, intervistata dopo le elezioni, disse di Al Gore e di Clinton: «Li ho scelti, invitati da noi e con loro abbiamo parlato...». Nel ’93 sarà nominata ambasciatrice in Francia. Ma i suoi titoli erano altri. Pamela, inglese, era stata sposata col figlio di Churchill. Viveva a Downing Street ed Harriman la frequentò lì durante la guerra. Poi, rimasti vedovi si sposarono, ottant’anni lui, cinquanta lei. A sua volta Averell Harriman, nato da un magnate delle ferrovie, aveva fondato nel 1920 col fratello Roland una banca d’investimento. Loro partner era Prescott Bush, padre di George Bush. Ma si dedicò anche alla politica. Una foto lo ritrae tra Churchill e Stalin al Cremlino. Diverrà una tra le più influenti personalità della politica estera dell’establishment. Nel luglio del ’47 lui e i suoi amici del «Council on Foreign Relations» elaborano la strategia del Containment.
Walter Isaacson e Evan Thomas, nell’autorevole libro The Wise Men, scrivono: «Persone come Acheson, Harriman, Lovett... e Kennan, ognuno le sue macchie e i suoi errori; da solo nessuno di loro avrebbe potuto pilotare il Paese verso il suo nuovo ruolo di superpotenza. Ma riunito questo piccolo gruppo di uomini possedeva la giusta mescolanza di fantasie e talenti...». Esempio perfetto di network anglofono, come quelli elogiati da Quigley. Senza del quale del resto è difficile capire anche il libro di Samuel P. Huntington. Nel suo famoso articolo dell’estate 1993 e nel libro successivo, noi torniamo del resto a un intento storico che è lo stesso di Quigley. E infatti in The Clash of Civilization and the Remaking of World Order gli studi di Quigley sulle civiltà sono tra i più citati. Ritorna la storia letta secondo la griglia di Rodhes e delle élites anglofone, quella di sempre.
Huntington riporta le tesi di Quigley secondo cui le civiltà attraversano setti stadi il cui culmine è l’impero universale. Più avanti la applica. «L’Occidente sta sviluppando l’equivalente di un Impero Universale sotto forma di un complesso sistema di confederazioni, federazioni, regimi e altre istituzioni cooperative...». L’euro e la Ue, insomma, ridotti a inoffensivi modi per articolare l’impero anglofono. L’altro storico assai citato nel libro è Arnold J. Toynbee, che nel 1922, esaminò il formarsi e il decadere di 26 civilizzazioni. Ne dedusse che s’erano formate nella leadership di minoranze creative composte da élites di leader. Direttore del RIIA e più tardi del Foreign Office, riteneva il mondo plasmato dalle forze dello spirito e non dell’economia. Era del resto il nipote dell’omonimo economista del XIX secolo, intimo di Lord Milner e Rhodes, poco prima che organizzassero la loro secret society. E a cui costoro dedicarono la Toynbee Hall. Altre ricorrenze, delle quali neppure il lettore dovrebbe più sorprendersi.


L’impero universale ormai esiste e parla inglese. Non solo, tutta la storia si sta riconfigurando secondo schemi culturali. I Club anglofoni, le loro aristocrazie hanno del resto sempre pensato in termini di civilizzazioni; mai di ideologie.
(6. Continua)

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