Che cos’è la vittoria? Non che Timothy Gallwey, di cui parleremo in queste righe, abbia finalmente la risposta, anche perché il quesito aleggia da un bel po’ di tempo senza una soluzione definitiva. Però: «Se conosci il nemico e te stesso, la tua vittoria è sicura. Se conosci te stesso ma non il nemico, le tue probabilità di vincere e perdere sono uguali. Se non conosci il nemico e nemmeno te stesso, soccomberai in ogni battaglia», e questo lo diceva Sun Tzu circa 500 anni prima di Cristo, uno che oggi – quelli alla ricerca della frase ad effetto – citano spesso per L’arte della guerra. Gallwey ha almeno tradotto tutto in una partita di tennis, e questo conforta noi appassionati, facendoci credere che guardandoci dentro riusciremmo a diventare come Federer: non riesce spesso, ma sicuramente fa figo.
Insomma: Il gioco interiore nel tennis, sottotitolo «Come usare la mente per raggiungere l’eccellenza» (Rizzoli Bur, pagg. 192, euro 15) è un mantra che dal 1974, l’anno della prima edizione, ha trasformato un buon giocatore di tennis nell’allenatore che ha inventato quello che ormai è diventato un corollario indispensabile per ogni atleta del mondo, ovvero il mental coach.
E a giudicare dai risultati raggiunti, la partita di Gallwey è stata sicuramente un successo, come se avesse vinto uno Slam, visto che il suo libro ha venduto nel tempo più di 2 milioni di copie e si è moltiplicato in repliche dedicate al golf, allo sci, alla musica, al lavoro e allo stress. Uno spin off completo niente male per uno che, facendo sempre una parafrasi tennistica, è diventato un fenomeno continuando – pagina dopo pagina – a palleggiare da fondo campo.
Perché dunque? Qual è il gioco interiore? Se rileggete la prima parte della frase di Sun Tsu, scoprirete che Gallwey ha fatto un po’ il furbo, detto in senso buono perché poi alla fine ci sono cascati tutti. In pratica il nemico e il te stesso abitano nello stesso luogo, il «dentro», ed è lì che, mentre fuori stiamo con la racchetta in mano, Sé 1 e Sé 2, gli originali avversari della partita interiore, se la giocano per decidere se siete in giornata o pure no. In fondo, scrive Maestro Timothy, che cos’è il tennis se non «cercare di buttare la palla dall’altra parte della rete in modo che finisca dentro il campo?». In pratica sarebbe tutto molto semplice se non ci fossero gli ostacoli della vita, e l’ostacolo principale (e non solo nel tennis) siamo noi. O meglio il nostro Sé 1, l’elemento giudicante, quello che ti fa parlare da solo e che ogni volta che sbagli ti dà degli ordini: «Mettiti verso la palla!», «Mandagliela sul rovescio!
», «Piega le ginocchia!», «Sei goffo come un bisonte, tua nonna potrebbe giocare meglio!». Tutto questo mentre il nostro Sé 2 si impegna a colpire la pallina nel modo migliore semplicemente non pensando. Già, perché alla fine nel tennis, nel golf, nello sci, sul lavoro e mentre sei in preda allo stress, dovresti seguire il fluido semplicemente spegnendo il cervello. Il quale impara e memorizza solo se non c’è qualcuno che gli dà fastidio. E quel qualcuno appunto siamo noi.
Detto questo non è che Gallwey abbia torto, anzi: il suo metodo ha funzionato e funziona ancora ad oggi, e pazienza se la cosa non deponga molto a favore del genere umano, anche ad alto livello. Prendiamo due esempi. Primo, Parigi 2005, finale del Roland Garros, in campo il favoritissimo numero 3 del mondo Guillermo Coria contro la sorpresa Gastón Gaudio. E infatti si arriva al 6-0, 6-3 per Coria, quando Gaudio improvvisamente strappa il servizio all’avversario. A quel punto il Sé 1 comincia a solleticare il Sé 2, il favorito fa comunque il controbreak ma nella sua testa la partita non è più quella di prima. Cominciano scenate, crampi e pallate al vento. Gaudio vince 8-6 al quinto: si rivedrà nei quarti di un UsOpen ma per il resto basta.
Coria declina verso l’oblio. Il Sé 1 ha vinto.
Secondo esempio, Wimbledon 2019, finale. Il Campo Centrale è tutto per Roger Federer che sta per compiere l’ennesima impresa, vincere a quasi 38 anni il nono Slam sull’erba di Londra contro il suo arcirivale Novak Djokovic. Ha due match point sul suo servizio, la gente impazzita urla Roger, Roger, Roger!: la prima palla match finisce in rete, il secondo è un passante del serbo sulla linea. Risultato 13-12 al tie-break del quinto per Djokovic, che alla fine dirà: «Il tifo contro? Nella mia testa gridavano: Nole, Nole, Nole!». Il Sé 2 t’ha fregato, caro Sé 1.
Poi, comunque, alla fine sotto questo livello ci siamo noi, giocatori di circolo e persone normali alla ricerca di qualche soluzione quotidiana. E quindi leggere Il gioco interiore può anche essere piacevole, visto che – seguendo la tesi di Gallwey – il ripetere un’azione crea dei solchi nel nostro cervello, e leggere della sfida tra Sé 1 e Sé 2 per più o meno 180 pagine può portare alla fine a far entrare qualche concetto interessante nella zucca (anche se anche questo però non depone molto a nostro favore). Ma tornando al quesito iniziale: cos’è la vittoria, soprattutto nel Gioco Interiore? Maestro Tim, giusto sul finale, ci fa sapere avrebbe voluto tanto dare una risposta, «ma ora scelgo di non farlo, anche se penso che questo sia il quesito più importante. Ogni tentativo di dare una risposta a tale interrogativo invita il Sé 1 a formulare il pregiudizio». E siccome il Sé 2 vuole «divertirsi, imparare, capire, apprezzare, rischiare, riposare, star bene, essere libero di essere quello che è, esprimersi e dare il proprio contributo» (bella la vita, eh?), meglio lasciarlo in pace.
Forse così, alla fine, l’unica
spiegazione possibile l’ha data il mitico allenatore di football americano Vince Lombardi: «Se la vittoria non è tutto, perché tengono il conteggio dei punti?». L’avesse capito anche Sun Tzu, sarebbe diventato miliardario.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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