Oggi lo stato della Borghesia italiana è molto peggiore di quello che ricordava Dino Buzzati, o anche il mitico Sergio Ricossa, negli anni '70. È ovvio che la prefazione di Buzzati alla ristampa di Vita e dollari di Paperon de' Paperoni venga cancellata. È triste, ma scontato. All'epoca del grande scrittore, i borghesi si vergognavano di essere borghesi, avevano questo senso di colpa di appartenere a una classe sociale che ce l'aveva fatta. Non rivendicavano il loro successo, nascosti nelle loro cucce pensavano di essere protetti dal loro cuore a sinistra. Almeno però all'epoca i borghesi esistevano: eccome. Erano i figli della guerra, erano i commendatori con il panciotto e sempre sovrappeso, erano i costruttori delle fabbriche, erano i proprietari delle macchine di grande cilindrata. Erano artigiani e piccoli commercianti che speravano di farcela: lavoravano per il mercato che se da una parte non li riconosceva, dall'altra non era in grado di disprezzarli. Speravano di diventare Cavalieri del lavoro e Achille Campanile li sfotteva. Erano democristiani, mica liberali, perché per loro il problema erano i comunisti. Amavano l'America, non solo per i dollari, ma perché lì c'era l'impresa, la ricchezza, la novità, il mercato.
Come Paperon de' Paperoni, alcuni di loro navigavano nell'oro che si erano procurati, ma i loro forzieri li tenevano in Svizzera: qua non solo non conveniva, ma era rischioso. Aveva anche ragione Einaudi: quella era una borghesia che lavorava come mai prima di loro, aveva portato il ritmo e la fame dei contadini in azienda, e riteneva che il profitto fosse importante, ma mai quanto il riconoscimento sociale di avere l'impresa più bella e più grande rispetto a quella del proprio vicino. Era un'Italia che votava Dc, ma che agiva da liberista: il profitto, l'ultima riga del bilancio era quella che contava. Come è giusto che sia. Del lasciar fare, del lasciar passare avevano un'idea molto precisa, anche se mai teorizzata: si lasci libera la borghesia di arricchirsi e noi lasciamo liberi i politici di occuparsi del resto, della cultura, dell'istruzione e della magistratura. Errore colossale, ma comprensibile.
Oggi la borghesia non c'è più, si è ridotta al lumicino. E viene confusa con la classe media. La borghesia era produttiva, rischiava; la classe media invece rappresenta una pura astrazione reddituale. Le due cose possono coincidere, ma indicano dunque caratteristiche diverse. In un Paese in cui più della metà della ricchezza prodotta in un anno è rappresentata dalla spesa pubblica (quest'anno supererà i mille miliardi di euro) sono cambiati le fonti di reddito. L'impresa privata è un dettaglio, il pubblico non è più la cornice, ma è la tela. La classe media è fatta prevalentemente di impiegati e professionisti, che intermediano tra il pubblico e le attività private. Il commercialista è più «classe media» della partita Iva che assiste; il consigliere di Stato è più «classe media» del manager della piccola azienda brianzola che dipende dalla sua decisione su ogni aspetto della vita aziendale. Viviamo in un Matrix in cui la borghesia è stata fatta fuori. Per una vita si è vergognata dei suoi successi, oggi semplicemente si sta dissolvendo, o peggio confondendo con una classe media sempre più povera.
I nuovi borghesi vengono uccisi in culla. La cultura, l'istruzione, la giustizia, che hanno abbandonato alla sinistra negli anni d'oro li ha sopraffatti, grazie alla sua nuova dimensione «religiosa e millenaristica». Il borghese è morto, come a quei tempi si diceva che lo fosse Dio, e poco dopo la Storia. Il simbolo della loro disfatta è la borraccia di metallo che gli ficcano in mano sin da piccoli per non disturbare il pianeta; è la responsabilità sociale di impresa che è diventato un valore in sé; sono i dannati criteri Esg, paravento per scusare l'incapacità di fare quattrini, ma essere fluidi; è la compliance, invenzione anglosassone, per cui è permesso solo quanto previsto. Dove pensate che possa nascere un borghese in questo modello? Il borghese è morto. E se avesse ancora qualche mese di vita, penserebbe bene a programmare un funerale decarbonizzato.
Lucio Colletti, in una straordinaria introduzione al Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels, edita da quel genio editoriale che è Silvio Berlusconi, diceva che il marxismo aveva per sempre cambiato un'identità hegelina tra realtà e razionalità. «Ciò che è, è razionale che sia». Per Marx invece la realtà non è necessariamente razionale e per questo gli uomini la devono e possono cambiare. Il capitalismo, secondo Marx, sarebbe morto sottomesso da una dittatura del proletariato che a sua volta avrebbe cancellato lo Stato (gigantesca contraddizione di uno Stato che controlla tutti i mezzi di produzione e poi inspiegabilmente cessa, ma questo è un altro discorso). Come Marx aveva ben compreso e descritto la fine del mondo feudale, la dinamicità del capitalismo e la sua mondializzazione, così forse aveva visto giusto sulla morte della borghesia.
Ma a farlo non sono stati certo i proletari, ma i nuovi mandarini senza merito, che stanno prendendo il posto della borghesia produttiva. Se questo sia un processo inesorabile, è tutto da vedere. Nel frattempo si rinunci a Dino Buzzati e si pensi ad un'introduzione da parte di un giudice del Tar.
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