"Sul tatami ho imparato la compassione e a combattere contro la solitudine"

Il karateka vincitore alle Olimpiadi si racconta in un libro. Tra medaglie d'oro, infanzia in palestra e molte docce fredde...

"Sul tatami ho imparato la compassione e a combattere contro la solitudine"

Luigi Busà, karateka pluri medagliato a livello nazionale, europeo e mondiale, arriva alle Olimpiadi di Tokyo e per la prima volta corona il sogno di molti praticanti della disciplina marziale: vincere un oro olimpico. Una vita spesa per il suo sport, tra cadute e vittorie, tra emozioni contrastanti e scoperte di sé, che lo hanno condotto a nuove consapevolezze e a trovarsi in un costante confronto tra la vita dentro e fuori il tatami. Una storia che viene raccontata nel libro La forza e il controllo (Longanesi) in cui l'atleta azzurro si apre al lettore offrendo spunti di riflessione e motivazionali.

Perché ha iniziato con il karate?

«Mio padre era allenatore già da tempo, con una società ad Avola. È stato normale per me e le mie sorelle, quindi, trovarci buttati sul tatami fin dalla più tenera età, vista la grande passione paterna che ha saputo anche coinvolgere mia mamma, che aiutava in segreteria. Siamo cresciuti insieme così. Un amore diventato mio con il tempo, perché all'inizio era un'estensione dell'amore di mio padre e che poi ho fatto solo mio.

Cosa sarebbe stata la sua vita senza la Medaglia d'oro olimpica?

«Penso una vita comunque splendida, ma senza la realizzazione di un grande sogno che avevo da bambino. Ho scelto un sogno difficile, pur credendoci e lavorando sempre per realizzarlo. Ho scelto di sognare in grande, ma soprattutto ho scelto di sognare, una cosa che molti ragazzi hanno, purtroppo, smesso di fare. Sarebbe stata un'esistenza con un sogno in meno».

Il karate è sempre un po' mal interpretato dai genitori, dalle persone, che vedono qualcosa di esoterico, capace di dare raddrizzate ai caratteri e che non è molto differente da Kung Fu o Judo come mai questa confusione?

«Sto cercando in tutti i modi di essere presente e poter parlare di questa disciplina proprio per dissipare dubbi, incomprensioni, leggende metropolitane e molto altro. Per me, scrivere questo libro, mettermi in gioco davanti ai riflettori, non è soltanto un modo di raccontare la mia storia ma di poter spiegare il karate. Questa bellissima disciplina non serve solo a difendersi se qualcuno ti aggredisce o se sei vittima di bullismo, o meglio, non serve come tutti possono immaginarlo alzando le mani. Il karate apre la mente, il cuore e lo spirito e permette certamente di avere più comprensione del proprio potenziale fisico e mentale, in più ci rende compassionevoli e centrati, allontanandoci così da molte situazioni difficili o aiutandoci a superarle. Ci insegna rispetto e valori essenziali per essere persone migliori. Questa è una parte dello spirito del karate che si dovrebbe conoscere e che io sto tentando di portare avanti con altri ambasciatori come Stefano Maniscalco e altri».

Sempre in movimento. Sempre con le persone. Ma cos'è la solitudine per Lei?

«È stata una doccia fredda, un modo per accettarmi e accettare molte cose di me, perché prima avevo sempre condotto una vita insieme a qualcuno: principalmente la persona che amavo, con cui mi sono sposato e poi separato prima delle Olimpiadi, una donna che mi conosceva da moltissimi anni e che è, come me, una karateka; una figura con la quale problemi, perplessità, gioie e dolori venivano in un certo senso divisi a metà. D'un tratto questo mare magnum di emozioni, di sensazioni, si è riversato interamente su di me mi sono rimboccato le maniche, rialzato da me stesso e dalle mie convinzioni, anche egoistiche se vogliamo, e ho iniziato ad ascoltare prima e dialogare poi, con la Bella Signora Solitudine».

Cos'è

successo?

«Fare, essere, gestire molti aspetti che prima delegavo emozionalmente ad altri. Mi sono anche chiuso, reso più diffidente del solito per un periodo, ma la solitudine è diventata una compagna, non più un avversario».

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