Sulle labili orme di Rimbaud. Il poeta che voleva l'Africa

Il saggio di Sylvain Tesson è lo spunto, incompleto, per seguire la fuga (fallita) dello scrittore dalla civiltà

Sulle labili orme di Rimbaud. Il poeta che voleva l'Africa

In viaggio con Rimbaud, di Sylvain Tesson (Rizzoli, traduzione di Chicca Galli, 178 pagine, 17,50 euro), è un titolo fuorviante. Quello originale, Un'été avec Rimbaud, si limitava a suggerire una stagionale frequentazione con il poeta, critica, letteraria, esistenziale, sulla falsariga di un precedente libro dello stesso autore, Un'estate con Omero... Tesson è però soprattutto noto come scrittore-viaggiatore, Nelle foreste siberiane, Beresina. In sidecar con Napoleone, sono i suoi maggiori successi, e quindi il marketing editoriale si è comportato di conseguenza: «Da Parigi all'Africa sulle tracce di un genio» recita il sottotitolo di copertina, un libro di viaggio sulle orme di, insomma... In realtà, esclusion fatta per un pugnetto di pagine iniziali, Tesson non si muove dalla sua camera (un modo di viaggiare anche questo, alla Xavier de Maistre, per intenderci, basta dirlo) e stando in poltrona o alla scrivania si interroga sul poeta. Intendiamoci, lo fa egregiamente, anche se con un'enfasi eccessiva nei confronti dei letterati, colpevoli di sezionare criticamente la poesia di Rimbaud senza però capire il poeta, e con qualche caduta di stile: «Sole nero dirà Nerval. Oscura chiarezza diceva Corneille. Chi lo sa... Mistero e acqua in bocca, diremo noi». Francamente, meglio Nerval e meglio anche Corneille...

Un paio di spunti sono interessanti. «Più che entrare nella storia», scrive Tesson, Rimbaud «preferirà svignarsela nella geografia». L'Africa è il suo modo per evitare che l'uomo diventi «il piedistallo dell'artista». Se fu «poeta maledetto», nota ancora, lo fu «suo malgrado». Ed è anche vero che «la vita di Rimbaud è movimento che conduce da un cammino di liberazione (il gironzolare nelle Ardenne) a una fuga che è tortura (la maratona africana)». Sotto questo aspetto, «l'avventura è la vita poetica quando la poesia non ha funzionato» e, in fondo, l'Africa «è il suo cilicio».

Per cercare di capire Rimbaud, impresa disperata quanto affascinante, bisogna proprio partire da quest'ultima, ovvero dalla fine, e provare a ripercorrere, anche sui luoghi, quel viaggio che, nel libro in questione, Tesson non ha intrapreso.

Nel 1882 Rimbaud non ha ancora trent'anni, ma il tempo sembra averlo bruciato e disseccato. Nella foto che lo immortala, scattata in un villaggio a pochi chilometri da Aden, è il sesto del gruppo, in piedi a sinistra. Indossa un vestito di cotone bianco, si indovinano i baffi e un piccolo copricapo, la stessa magrezza, ma una minore spossatezza dei tre autoscatti da lui fatti un anno dopo e mandati alla famiglia nonostante la pessima acqua con cui aveva lavato le lastre li avesse sbiancati: «Farò meglio in seguito. È solo per ricordarvi come sono e per darvi un'idea del paesaggio di qui».

Del poeta in Africa non resta più nulla, del trafficante sono sopravvissute poche immagini, molte mitologie e gli scritti, lettere in massima parte. Ciò che si impone è proprio quel continente elevato alla sua ennesima potenza e le esistenze singolari che le fanno da corona, avventurieri e falliti, uomini della buona società e avanzi di galera, missionari e assassini con licenza governativa. Una irripetibile avventura artistica si è chiusa con un senso di inutilità e di tristezza, ma il nuovo corso, la salvezza nella semplicità, non è così automatico e facile come Rimbaud credeva.

Aden, Harar... Nella prima, anni fa, inaugurarono con il suo nome la sede della Maison Bardey, casa-ufficio-deposito-prigione, in cui aveva abitato... Fu in seguito trasformata in albergo, andò infine tutto in malora... Del resto, che dovesse essere proprio Aden «lo scoglio orribile dove non si vede e non si tocca che lava e sabbia e noi arrostiamo al fondo di questo buco come in un forno a calce», lì dove «la pelle suda, lo stomaco va in malora, il cervello si guasta, gli affetti si infettano, le notizie sono cattive», che dovesse essere proprio questa città a volersi assumere l'onere e l'onore di celebrarlo e ricordarlo, via, sarebbe stato il colmo! Mai amata, mai sopportata, sempre fuggita e sempre ritrovata, fino all'ultimo imbarco, su una barella, la cancrena che monta...

«Sognavo crociate, viaggi di scoperte di cui non esistono relazioni, repubbliche senza storie,/ guerre di religione soffocate, / rivoluzioni di costumi, movimenti di razze e di continenti:/ credevo a tutti gli incantesimi». Eppure, ecco, in questi versi di Une saison en enfer, Aden c'è tutta. A cominciare dal suo apparire, prima isola e poi penisola, luogo abitato dentro un vulcano spento, all'essere centro di traffici e commerci, terra di conquista e base di conquiste, avamposto militare e secondo porto al mondo, settemila navi l'anno, solo Londra davanti a lei, crocevia di razze, fedi, superstizioni...

È qui del resto che si attua la morte del poeta e la resurrezione del trafficante. Dirà Mallarmè. «Si è operato dal vivo della Poesia». L'operazione è riuscita, ma il paziente è morto.

Harar, in Abissinia... Anche qui anni fa restaurarono e inaugurarono un'altra Maison Rimbaud. L'unica cosa certa al suo riguardo, è che fosse stata eretta trent'anni dopo che era morto... Posta al centro dell'Etiopia cristiana, a fine Ottocento Harar venne annessa dal futuro imperatore Menelik, che le lasciò però le sue 82 piccole moschee, i santuari, le tombe e il cimiero islamico, un concentrato di Islam che nei suoi 368 vicoli sapeva più di Marocco che di Africa nera. Arthur Rimbaud fece in tempo a vedere il prima e il dopo, l'emirato e il nuovo governatorato cristiano di Ras Mekonnen, il padre di quello che poi sarebbe stato il successore di Menelik con il nome di Hailè Selassiè, ma trovò che nel cambio di potere non era cambiato nulla. Quanto a lui, quanto a Rimbaud, trascinava «un'esistenza desolata sotto climi e condizioni insensate. È un vero incubo». Sembra la risposta al sé stesso in versi che fu: «Un tempo, se ben ricordo, la mia vita era un festino, dove ogni cuore si apriva, ogni vino fluiva».

Se lo si guarda con freddezza, «L'Io è un altro» di Rimbaud è un totale fallimento. Fallisce come commerciante, fallisce come trafficante d'armi, fallisce come fotografo e nemmeno il suo fisico ce la fa a resistere alle asprezze di un clima e alle durezze di una condizione di vita atroce... Solo se lo si guarda emotivamente ci si può consolare dicendo che la sua vera essenza sta proprio in questo annullamento, l'inebriante sensazione di fare tabula rasa di sé stesso, talmente altro da diventare sconosciuto e/o inconoscibile. Eppure, basta rileggerlo per capire che non sarebbe dovuto andare così: «Lascio l'Europa. L'aria marina mi brucerà i polmoni, i climi sperduti mi abbronzeranno»... E ancora. «Amai il deserto, i prati bruciati, le bevande tiepide, le botteghe decrepite... Gli occhi chiusi mi offrivo al Sole, dio del fuoco».

La danza di Rimbaud («Ho teso corde da campanile a campanile/Ghirlande da finestre a finestre/ Catene d'oro da stelle a stelle/E danzo»), è noto, comincia a farsi insicura nell'estate del 1887. Ha 32 anni, «un reumatismo alle reni mi fa dannare, un altro alla coscia sinistra mi paralizza ogni tanto, dolori articolari anche al ginocchio, un vecchio reumatismo alla spalla destra». È un ragazzone, alto uno e ottanta, porta il 41 di scarpe, è abituato alla fatica: passerà si dice, non cede. Il male gioca con lui a rimpiattino. Appare, colpisce, scompare. Nel febbraio del 1891, allorché chiede alla madre una calza elastica, crede ancora che si tratti di varici, che basti stare sdraiato, riposarsi... Non sa che il tumore lo sta divorando dal di dentro.

La capacità che hanno certi malati di ingannare sé stessi, ha dello stupefacente, e ha un che di eroico il loro non darsi comunque per vinti. Sei giorni dopo l'amputazione, Rimbaud ha già scritto al governatore di Harar: «In una ventina di giorni sarò guarito. In qualche mese conto di tornare per commerciare come prima». Si illude, e lo sa, ma sposta sempre un po' più avanti il momento della delusione. Nel delirio degli ultimi giorni non avrà che un'idea fissa, ritornare, ripartire. Scrive Isabelle alla madre. «Mescola tutto e... con arte. Siamo nell'Harar, partiamo sempre per Aden... Cammina molto facilmente con la nuova gamba articolata, facciamo qualche giro a passeggio su bei muli riccamente bardati». È un'agonia la sua che stringe il cuore.

Quando finalmente muore, il 10 novembre 1891, il miglior epitaffio glielo scrive l'impiegato dell'ospedale di Marsiglia dove era ricoverato. «Commerciante», annota come professione, «di passaggio», mette come indirizzo.

La nave che, ancora ventenne, lo aveva riportato in Europa da Giava, dove aveva disertato dopo essersi arruolato nella Legione straniera olandese, si chiamava The Wandering Chief, Il comandante errante. Un nome profetico.

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