Sulle tracce di quella follia che porta(va) alla saggezza

Trecento pezzi, dal medioevo sino al romanticismo raccontano la rivolta della mente e come fu domata

Sulle tracce di quella follia che porta(va) alla saggezza

C'è stato un periodo della storia, fra il Medioevo e il Rinascimento e fino grosso modo alla nascita dei grandi Stati unitari e dell'assolutismo regio in cui i pazzi, ovvero la follia nel suo senso etimologicamente più esteso, dal buffone di corte al giocoliere di piazza al re di Carnevale, dal giullare di Dio al segnato da Dio al cavalier cortese che per amore perde il senno sono state presenze non rinchiuse fra le quattro mura di un ospedale psichiatrico, tanto meno soggette a punizioni, confessioni, abiure. L'Ottocento romantico e postrivoluzionario cercherà di recuperarli nel nome del sole nero della malinconia, caricandoli di spleen esistenziale, disgusto della vita, senso tragico dell'esistenza, ma così facendo ne sancirà ancor di più il distacco dalle convenzioni e dalla società borghese che intanto si è venuta configurando. A quel punto della follia si è già impadronita la psicanalisi e il folle è divenuto un malato la cui guarigione oscilla fra il sorvegliare e punire e il libero sbrigliamento dei sensi, a seconda di come la società intellettuale e quella politica si mettano a petto del fenomeno.

La grande mostra Figures du fou. Du Moyen Age aux Romantiques, ora al Louvre (fino al 3 febbraio, poi itinerante) ne dà conto con l'esposizione di più di 300 pezzi che vanno dagli oggetti di uso quotidiano, pettini, monili, a miniature, arazzi, dipinti, libri, incisioni. Opere di carattere religioso così come di ordine profano che testimoniano un percorso ricchissimo di riferimenti culturali e sociali, spesso fra loro in contraddizione, ma sempre e comunque come una sorta di legame fra mondo terreno e aspirazione a un al di là tipico di una società che è religiosa al massimo grado e che fa della fede una vera e propria professione di vita. Amore sacro e amor profano, ascetismo e lussuria si scambiano insomma le parti...

Come già detto all'inizio, i folli fanno la loro prima apparizione nelle corti aristocratiche intorno al XIII secolo, e, le sot, lo stupido, la cui innocenza d'anima e assenza di malizia ne fa le figure più vicine ai poveri di spirito cari al Signore, per poi divenire nel tempo dei veri e propri professionisti del riso, giullari di corte, appunto, a cui spetta il privilegio di dire la verità davanti al nobile che li protegge. Questo status particolare nel giro di un secolo porterà alla consacrazione del Carnevale come festa rovesciata del sovvertimento sociale, vera e propria festa dei folli che nelle città godranno di una popolarità e di una libertà straordinarie.

Alla fine del XV secolo, quando nel passaggio fra Medioevo e Rinascimento l'Occidente cristiano conosce una profonda crisi intellettuale, politica e religiosa, proprio perché la figura del folle finisce per essere dappertutto e quindi essere la norma, essa ha come sua controparte il non essere più tale, ovvero la constatazione che è la follia a dominare il mondo e non la norma, la saggezza, la ragione. Testi satirici e moralisti, quali La nave dei folli, di Sebastian Brant o L'elogio della follia, di Erasmo da Rotterdam, artisti come Bosch, raccontano il folle come un personaggio marginale e/o secondario in un mondo che nella follia ha il suo motore immobile. Riforma, Contro riforma, cartesianesimo si incaricheranno di raddrizzare la barca delle convenzioni sociali, la monarchia assoluta, come già accennato, farà il resto e toccherà alla cosiddetta commedia dell'arte recuperare alcune figure della follia sotto forme di maschere che ne accentuano il lato comico-grottesco, ma lo svuotano di ogni carattere e sentimento eversivo.

Restando un attimo alla Nave dei folli, varrà la pena di osservare che, pubblicata per la prima volta a Basilea nel 1494, nel giro di poco più d'un decennio avrà una diffusione di oltre 13mila copie, a cui non sarà estranea la ricchezza delle illustrazioni, in grand parte opera di Dürer. Strutturato in un centinaio di piccoli capitoli, La nave dei folli, Der Narrenschiff è il suo titolo originale in tedesco, declina in essi tutte le figure possibili della follia, identificata nel medesimo registro del vizio e del peccato, una metafora della vita, insomma, quando l'uomo, dimentico di Dio, si crede onnipotente. L'ultimo peccato rimane la follia nel suo non riconoscersi come tale...

Pochi anni più tardi, dall'Inghilterra e poi subito pubblicato in Francia, L'elogio della follia, di Erasmo, ne rovescerà l'impianto pessimista: perché se la follia è onnipresente lo è in quanto necessaria: sta a indicare l'illusione, l'accecamento volontario, la cortina fumogena che rende la vita possibile: senza di essa «il suddito si stancherebbe presto del suo principe, il servitore del suo signore, il discepolo del suo precettore, l'amico del suo amico, il marito di sua moglie... È dunque necessario che tutto questo sia un inganno, una lusinga, una compiacenza».

Epoca dura, epoca violenta, il Medioevo tiene però a battesimo la follia amorosa, nel senso della follia cortese, cavalleresca, una sorta di processo di purificazione della carne, la fiamma dell'amore che, come accade all'oro raffinato nel fuoco per toglierne ogni impurità, brucia l'ardore irrazionale del desiderio nel nome della castità. Se le prime canzoni dei troubadours esaltano ancora la sessualità carnale e adultera, Chrétien de Troyes tiene a battesimo il nuovo corso: il cavaliere va in cerca di tornei e di imprese in nome e per conto della donna amata e il suo amore si sublima in essi, è il prezzo da pagare non per il possesso, ma per il riconoscimento della sua primazia amorosa. Da Lancilotto e Ginevra a Tristano e Isotta è un susseguirsi di eroi furiosi, posseduti e melanconici.

Lungo le sale della mostra, il percorso della follia invade i tavoli da gioco, il matto degli scacchi come quello dei tarocchi e diviene anche, ne abbiamo accennato una professione: Coquinet è il buffone preferito di Filippo il Buono, duca di Borgogna, Triboulet è quello preferito da Francesco I e che Hugo e Verdi porteranno a teatro e all'opera, ovvero Rigoletto... Quando però l'Ottocento se ne impadronirà, aggiungendovi, sempre per la penna di Hugo, il Quasimodo di Notre-Dame de Paris, la follia non ha più nulla di gioioso, ma è sempre e soltanto drammatica. Nel Portrait de l'artiste dit Le Fou de peur, Gustave Courbet dipinge sé stesso vestito da buffone di corte e/o da commediante, terrorizzato, una mano nei capelli mentre con l'altra cerca di evitare la caduta nel baratro della follia.

La luce dei lumi della Rivoluzione si è spenta e, come insegna Goya nei suoi Capricci, questa volta il sonno della ragione genera mostri: l'irrazionale e lo strano rifanno la loro apparizione, l'artista e il pazzo si guardano allo specchio, si riconoscono e restano inorriditi, la follia è creatrice, ma porta con sé la distruzione di chi avrebbe voluto metterla al suo servizio.

Il re di un tempo, non si diverte più...

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