Di Dario Bellezza preferisco le traduzioni di Rimbaud. Quei versi li pubblica Garzanti posseggono un'eleganza lasciva, la nobiltà del brigantaggio. Nella Premessa del traduttore, Bellezza scrive che «i grandi poeti non si possono tradurre» e che Rimbaud aveva scelto l'Africa, cioè «il suicidio nella vita», perché «non voleva la malia oscena della ripetizione; il vero male, la quotidianità nell'arte, la morte nell'arte». Come tutti i poeti precoci, innati, nati giovani per sempre, Bellezza, invecchiando, ha ripetuto se stesso, perdendosi. Pur non essendo un grande poeta, Bellezza fu poeta, e un poeta, aveva ragione, è intraducibile. Così, Bellezza, addio, il film documentario di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese, registi abituati a sondare lo scandalo e lo sconcerto nel 2020 hanno realizzato Il caso Braibanti , non riguarda il Dario Bellezza poeta, tanto meno la sua poesia, ma il mondo romano, dionisiaco, di comunelle e contumelie, per lo più barocco, striato di grida in forma di miagolio che ruotava intorno a Bellezza. Eppure, quando un poeta finisce per rappresentare un mondo, un'epoca, è finito.
Bellezza, addio bello, pallido, un po' asettico più che «il ritratto di Dario Bellezza» è il ricordo «di una stagione culturale irripetibile». Cosa aveva di irripetibile quella stagione lo dice Barbara Alberti, tra gli interpellati: «il bene di vivere nell'era dello scandalo». Oggi, lo scandalo, scandito dai like, è merce pari a un'altra, lo scandalo è diventato bigotto quanto al «bene di vivere», beh, è benemerenza dei benestanti. Irripetibile, va da sé, è la stagione della giovinezza per chi, ora, è vecchio e fieramente fuori posto: Bellezza rivive nei ricordi degli astanti, ormai distanti Franco Cordelli, Ninetto Davoli, Renzo Paris, Elio Pecora, Nichi Vendola, tra gli altri come lo specchio degli anni d'oro che ciascuno, sopravvissuto, conserva nel proprio portagioie. Il film, così, più che uno spaccato sociale la liberazione sessuale, l'anomalia resa norma, la mattanza dell'Aids , vivaddio, vive nel cupo nitore della malinconia, sempre crudele. Alcune memorie sono memorabili: Amelia Rosselli che sale su un albero perché non vuole vedere i parenti; l'abissale pudore di Anna Maria Ortese, amata e riscoperta da Dario Bellezza. I frammenti dello scontro televisivo tra Bellezza e Aldo Busi, acide pettegole, era il 1986, dimostrarono che la «diversità» aveva divorato il «diverso», lo scrittore, rendendone pressoché insignificante cioè: insipida rispetto al «personaggio» l'opera.
Ritenuto da Pier Paolo Pasolini il poeta più importante della sua generazione, Bellezza non amava stare tra i pulcini pasoliniani: dopo Invettive e licenze (1971) si permise la licenza di pubblicare tanto, troppo, confidando nel credo che la vita, di per sé, è un'ispirazione permanente, un'occasione per far versi e far chiasso. Più che un maledetto, Bellezza «era gatto, era cane, gli piacevano le carezze», era un essere «perseguitato dall'allegria» (così Barbara Alberti). Per un periodo, Dario Bellezza si diede alla tivù: il tubo catodico, vampiro, fece del poeta una macchietta. La sciarpa, gli occhiali, il cappello a tratti, la levità levantina: la società teleutente aveva bisogno del poeta per farne scempio, per ridergli dietro. Già allora, però, non si trattava più di scuotere le coscienze, dal consumo consunte, bensì di diventare incoscienti; non bisognava mendicare l'aiuto di Stato o l'attenzione civica ma adornare di stelle la propria irriverente e irriferibile latitanza. Tutto qui. Non abbandonare il campo, ma adempiere la strada dell'abbandono, e la sua abbondanza.
Ad ogni modo, la poesia di Bellezza, in Bellezza, addio, capita a sprazzi, tre minuti, forse quattro, in un'ora e passa di film. Frammenti di taglio, col sangue blu dell'eterno bimbo («Ma non saprai giammai perché sorrido./ Perché fui il pedante Amleto/ della più consolatrice borghesia»). Più che altro, Bellezza rappresentò la possibilità di vivere di poesia, per la poesia, bella o brutta che sia, nell'estasi disperata dei folli e dei fatui.
Davanti al pubblico di Castelporziano, che lo ricoprì di boati, era il giugno del 1979, Bellezza sbottò, «siete degli stronzi fascisti». Ma il poeta deve darsi al martirio delle incomprensioni: fascista, semmai, era l'idea che la poesia potesse avere un pubblico di massa, esercitare un vaticinio; una stronzata fare del poeta, l'asociale assoluto, una rock star qualunque.
D'altronde, dietro la fotografia che gli faceva da monile sguardo bambinesco, offerto Bellezza aveva scritto, a mo' di didascalia, «Questo è un pezzo di merda». Eccolo lì, il poeta, angelo delle latrine, abbiente nell'abiezione, asceta nell'abominio: nessuno lo può fermare, lo può filmare.
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