Don Carlo di Vargas, nella terna dei protagonisti de La forza del destino di Verdi, è il Conte di Montecristo della lirica: vive per la vendetta. È il baritono Ludovic Tézier a vestire questi scomodi panni nella produzione con cui apre la stagione della Scala, il 7 dicembre con la direzione di Riccardo Chailly, Leo Muscato alla regia, scene di Federica Parolini e costumi di Silvia Aymonino. Nel cast brillano Anna Netrebko (Leonora), Brian Jadge (Don Alvaro), Vasilisa Berzhanskaya (Preziosilla), Alexander Vinogradov (Padre Guardiano), e il coro diretto da Alberto Malazzi. Solo una volta La forza è stata prescelta dalla Scala come titolo inaugurale, nel 1965 e sul podio c'era Gianandrea Gavazzeni. Le ultime esecuzioni milanesi risalgono al 1999 con Riccardo Muti (versione del 1869, la stessa che vedremo i prossimi giorni) e al 2001 con Valery Gergiev e i complessi del Mariinskij (versione del 1862).
Tézier è un Don Carlo navigato, ha affrontato il ruolo in altre cinque produzioni, ma è conquistato dall'approccio di Chailly, «perché sprona a usare tutti gli attrezzi speciali messi in campo da Verdi. Quella della Forza è una scrittura straordinaria, se scavi trovi tesori grazie ai quali far uscire il personaggio», spiega.
Don Carlo è il fratello di Leonora, rea di amare Don Alvaro: mulatto e per questo inviso al di lei padre. Così, i due innamorati tentano la fuga venendo però colti in flagrante dal padre, il quale viene ucciso da un colpo partito accidentalmente dalla pistola di Don Alvaro. D'ora in poi l'esistenza di Don Carlo ha un unico obiettivo: riscattare l'onore della famiglia. Inizia la caccia spietata ad Alvaro: in Spagna, quindi in Italia, poi di nuovo in Spagna. Morirà in duello con Alvaro, non senza aver prima ucciso la sorella. «È un personaggio duro, scuro, sente su di sé il grande occhio del padre che gli chiede vendetta. Non riesce a scappare dal suo destino, sebbene le possibilità di farlo. La morte del padre è solo l'evento scatenante che ravviva la sua innata cattiveria. Il rapporto con Leonora è conflittuale prima che si compia il peccato, c'è astio fra i due fratelli, e la regia va a sottolinearlo. È talmente ossessionato dal senso dell'onore che pur sapendo che Alvaro è un soldato abilissimo, non si esime dallo sfidarlo a duello, morendo», racconta Tézier.
Le vicende scorrono nel segno di una lunga guerra che sigla tutti e quattro gli atti. Non c'è amore, comprensione, amicizia in questo melodramma, i personaggi sono vinti dalla forza ostile del fato. Aspetti rimarcati dai colori plumbei delle scene, e dall'elemento fisso di una piattaforma rotante che rimanda alla ruota del destino, con brandelli di case che sembrano uscite dai versicoli di Ungaretti. Nella Forza del destino convivono situazioni multiformi, inverosimili e pure dissonanti, tragiche e comiche, tra osterie, conventi, campi di battaglia e accampamenti, in una commissione di alto e basso, preghiere e tarantelle fino all'esuberante Rataplan. Non è facile armonizzare tutto questo, «ma Muscato ha creato piani metaforici e poetici, tutto è articolato come un sogno apparentemente privo di una logica, mentre una logica c'è e si svela alla fine. Ci muoviamo in un contesto dove anziché mettere la parola fine alla distruzione combattendo contro il destino, finiamo per ammazzarci tutti» (Tézier) .
Tézier ama questo titolo verdiano, e in particolare «il meccanismo della fatalità che si annuncia con i tre si della sinfonia.
Le tre note mettono in moto l'orologio, che inizia a girare senza sosta sino alla fine. È un'opera innervata da potente energia, non sempre positiva, ma incredibile, e noi cantanti la avvertiamo. Nonostante le maledizioni e le sciagure, è la tipica opera che ti vien voglia di cantare».
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