Fin da bambino, negli anni Settanta, per le strade di Dublino Joseph O'Connor sentiva aleggiare la leggenda di Bram Stoker ed è da allora che lo scrittore irlandese, classe 1963, ne è affascinato: «Stoker era nato nella mia città, la gente raccontava storie su di lui, addirittura mia nonna sosteneva che uno dei nostri parenti lo avesse incontrato». Bram Stoker (1847 - 1912), che da un secolo è conosciuto da chiunque come il creatore di Dracula, nell'epoca in cui visse, cioè in pieno periodo vittoriano, non era affatto noto o, almeno, non lo era come scrittore: per decenni, infatti, fu direttore del Lyceum Theatre di Londra e l'assistente personale e tuttofare di Henry Irving, il più grande attore shakespeariano di quegli anni. In queste vesti conobbe scrittori e intellettuali, da George Bernard Shaw a Walt Whitman e, soprattutto, Ellen Terry, la diva teatrale dell'epoca, amica di Irving e stella del Lyceum. «Ellen Terry e Henry Irving sono state le prime superstar del teatro e i media avevano un interesse ossessivo nei loro confronti» racconta O'Connor. Ed è così che, mettendo insieme gli ingredienti di una amicizia (o forse qualcosa di più) a tre un po' particolare, di un aspirante scrittore fuggito dall'Irlanda e in cerca di fortuna a Londra, di una capitale dell'Impero terrorizzata da Jack lo Squartatore e turbata dall'insuperabile Oscar Wilde, e della nascita di una figura letteraria senza tempo, il Conte vampiro, Joseph O'Connor ha scritto Teatro d'amore (Guanda, pagg. 380, euro 20; traduzione di Elisa Banfi): la storia romanzata - e raccontata a più voci e a più registri, proprio come Dracula - delle avventure personali di Bram Stoker fra l'intelligentissima moglie Florence (soffiata al concittadino Wilde), il teatro da dirigere, l'irascibile Irving, l'affascinante Ellen, le ambizioni letterarie... «Questa storia d'amore, che è il mio romanzo, mi sembrava una lente attraverso cui il lettore potesse osservare il nostro stesso mondo. I temi del libro - la creatività, i ruoli di genere, la sessualità, il potere - sono tutti molto contemporanei. E, più mi immergevo nella vita di Stoker, più arrivavo a considerarlo una figura del nostro stesso tempo».
Dublinese, laureato in matematica, svogliato burocrate al «Castello», critico teatrale in erba, Stoker conosce il celebre Henry Irving e, come tanti, ne è stregato. Lo segue a Londra per lavorare al suo teatro (dovrebbe fare il segretario, invece si ritrova una targhetta da «direttore generale») con la neo mogliettina Florence, che tanto -ina non è, infatti per tutta la vita, e anche oltre la morte di Bram, si batterà per il riconoscimento dei diritti d'autore sulle sue opere: «Credo che Florence fosse straordinaria, e che fosse incredibilmente tollerante. Non penso che il loro matrimonio sia stato un fallimento... Si sono allontanati e poi riavvicinati e poi riallontanati, ma c'è sempre stato un legame forte fra loro». Ma chi era Bram Stoker? Uno che da bambino era stato a lungo malato, insomma, uno che, nell'immaginario, aveva la faccia smunta quasi quanto le vittime dei suoi vampiri, evanescente come un fantasma, stravagante come uno Scapigliato, o un Baudelaire un po' noir... «Se si chiedesse a qualcuno di immaginare l'autore di Dracula, certo non descriverebbe quest'uomo anonimo, convenzionale, molto schivo, che era quanto di più lontano possibile dal genere gotico. I vicini londinesi lo ricordavano quando camminava lungo il Tamigi, la figura robusta e atletica, nonostante un'infanzia afflitta da una grave malattia che per tutta la vita lo aveva lasciato nel terrore della solitudine. Ma, grazie alle sue esperienze straordinarie al Lyceum, alla relazione tempestosa con Irving e all'intimità dolceamara con l'attrice Ellen Terry, Bram fu ispirato a scrivere il racconto sovrannaturale più iconico di tutti i tempi».
E dire che, in vita, sembrava il più sfortunato del trio. Irving acclamatissimo, Ellen adorata, e lui... un efficientissimo direttore teatrale, ma uno scrittore fallito. «Uno dei temi del romanzo è proprio la tensione fra il successo artistico, la fama e l'ambizione. È molto interessante vedere come i grandi artisti e scrittori abbiano affrontato il fallimento. Nel caso di Stoker, credo semplicemente che fosse un po' avanti rispetto ai suoi tempi. Anziché essere un residuato di medievalismo, come la maggior parte delle storie di vampiri, Dracula è un romanzo dalla modernità sorprendente e inquietante, che mette in scena telefoni, orari del treno, riviste per donne, innovazioni mediche, viaggi internazionali, stenografia, registrazioni audio e, ovviamente, trasfusioni di sangue. Il genio di Stoker è stato prendere il vecchio archetipo del succhiatore di sangue e trasportarlo nel mondo quotidiano del lettore». Una vita spesa a teatro e a cercare di scrivere sceneggiature, fra Il mercante di Venezia e Amleto, fa sì che anche il romanzo diventi un palcoscenico: «Il Conte, che si aggira di notte e dorme di giorno, parla alle ansie più intime, alle sessualità represse, a un mondo sotterraneo di sé segreti. Questo nobile luciferino è più stimolante degli innocenti che brama e, in un certo senso, il Conte stesso è una specie di teatro, nel quale sono messe in scena le nevrosi della sua era». L'era vittoriana, in cui Dr Jekyll e Mr Hyde e Il ritratto di Dorian Gray svelano il «doppio depravato» che ciascuno nasconde, anche se il messaggio di Stoker si spinge quel tanto più in là («siamo solo a un morso dall'immortalità e c'è qualcosa, in noi, che desidera essere morsicato...») da risultare inascoltabile per i suoi contemporanei e, quindi, lo condanna all'insuccesso. In vita.
Il doppio - il fantasma di Mina nei bassifondi del Lyceum, i demoni che trascinano Stoker di notte per le strade di Londra, le pulsioni frustrate - è rappresentato anche da un altro personaggio del romanzo: Oscar Wilde, conterraneo di Stoker, ammirato e rinnegato allo stesso tempo. «Sono sempre stato affascinato da Wilde - dice O'Connor - ed è interessante notare quanto spesso lui e Stoker appaiano nel dietro le quinte delle rispettive esistenze. Mi sembra incarni bene l'idea che ciascuno ha almeno un altro sé. Tutti ne abbiamo almeno uno e alcuni ne hanno anche molti...
Ed è per questo che siamo così interessati alle storie: perché in esse incontriamo gli altri nostri sé, non importa quale sia il genere di storia, dal romanzo alla soap opera alla barzelletta. Potrebbe essere perfino il motivo per cui le storie sono nate: perché abbiamo bisogno di un luogo in cui dare un'occhiata all'altro nostro sé». Quelle sbirciatine che diamo a teatro, o dentro una storia di vampiri.
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