Non è mai troppo tardi per cambiare idea. E per quanto incredibile sembri, solo alla bella età di 94 anni Pier Luigi Pizzi, tra gli scenografi e i registi d’opera più acclamati al mondo, è diventato un entusiasta ammiratore di Giacomo Puccini. Al punto da essere stato nominato direttore artistico del Festival di Torre del Lago che quest’anno celebra i cento anni dalla morte del compositore e contemporaneamente i 70 dalla nascita della rassegna. Il che, per un creatore di teatro fino a qualche anno fa quasi del tutto estraneo al fascino pucciniano, è un risultato più che singolare. Addirittura sorprendente.
Maestro: cosa l’ha tenuta per tanti anni lontano da Puccini? E cosa le ha fatto cambiare idea?
«Pur riconoscendo la grandezza delle sue opere trovavo che su di esse fosse già stato detto tutto, che non ci fosse spazio per nuove idee di regia.
Poi trent’anni fa al festival di Macerata, che dirigevo, Gabriele Lavia dette forfait alla vigilia di una Butterfly di cui doveva fare la regia. Per salvare la situazione fui costretto a rimboccarmi le maniche. Fu allora, a contatto diretto con lo spartito, che rimasi prima affascinato e via via letteralmente conquistato: capii che considerare Puccini semplicemente un “verista” era riduttivo; che la sua musica vola alto, molto più in alto di quanto avessi pensato fino ad allora».
E di quanto abbia a lungo pensato anche la critica più snob, che lo riteneva troppo facile, troppo popolare.
«Già; ma non era quella spocchia, ad influire sul mio giudizio. È che quando tu trovi un musicista che è anche regista, che racconta tutto nota per nota – il momento esatto in cui Tosca mette i candelabri accanto al cadavere di Scarpia; il punto preciso in cui Rodolfo spruzza l’acqua su Mimì svenuta - ti senti quasi superfluo. Impressione superficiale, naturalmente. Perché c’è molto di più: le note di Puccini vanno oltre, raggiungono vette di poesia pura. Perché il suo è teatro di altissimo livello, fuso con musica sublime. Al punto che, se ti allontani dal suo Stile Da anni intervengo di sottrazione: eliminare il superfluo va a vantaggio dell’emozione che è il fine ultimo del nostro lavoro Unicità teatro, la sua musica non ti commuove più».
Cosa ne pensa, allora, della Turandot del San Carlo totalmente riscritta dal regista? Con i protagonisti vittime di un incidente stradale, lei in camera operatoria e la carcassa dell’auto a incombere sulla scena?
«Di fronte a quello scempio ho provato vera indignazione. Non si ha il diritto di deturpare a quel modo le opere altrui. Che se ne scrivano di proprie, allora. La colpa però non è solo dei registi che non conoscono il melodramma, che non l’amano, che lo trattano come una colonna sonora da “riempire” di idee bislacche. È anche dei sovrintendenti che lo permettono, della critica che li applaude. E, purtroppo, anche di molto pubblico, che per indifferenza e incultura è arrivato quasi a trangugiare qualsiasi assurdità».
In cartellone quest’anno sei opere pucciniane, con quattro sue regie (il dittico Edgar-Willis, quindi Tosca e Turandot). Quale la cifra stilistica?
«Da anni lavoro di sottrazione. Eliminare il superfluo va a vantaggio dell’emozione. Che poi è il fine ultimo di chi fa il nostro lavoro. Tutte le opere avranno un dispositivo scenico comune, montato su un girevole - necessario, per un festival che alterna ogni sera un titolo diverso - ma con caratteristiche specifiche, assieme all’uso del ledwall, che consentirà proiezioni di ulteriori e più spaziali elementi scenografici».
E su tutto, il rispetto per l’autore.
«Beh: se si celebra un genio nel suo centenario credo si debba farlo col più grande riguardo per il suo lavoro. Il pubblico di Torre del Lago è di melomani cui non c’è nulla da insegnare; ma anche da neofiti che vedono un’opera per la prima volta.
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