Guerriglia: il romanzo uscito in Francia l’autunno scorso, per la penna di Laurent Obertone, ha garantito la polemica e lo scontro natalizio. Il tema e la sua trattazione sono più che adeguati alla sensibilità popolare diffusa, legata alla perdita di sicurezza e di identità: la polemica violenta era garantita.
D’altra parte, Obertone era atteso al varco dopo il suo Francia Arancia Meccanica (2013) che presagiva la rivolta della guerra civile. Obertone ha tutte le caratteristiche per essere una persona scomoda, rinforzata in questo ruolo dalle simpatie che i suoi libri hanno suscitato in una destra francese alla riscossa, che si è fatta promotrice di Guerriglia nella classica azione politica fagocitante ogni forma di possibile supporto alla causa, magari con leggerezza.
Guerriglia è un romanzo lungo, forse troppo; crudo nelle immagini che evoca, forse troppo; scarno nel linguaggio, forse troppo. Rappresenta una realtà futura drammatica, nella pancia dell’Europa, di là da venire ma non troppo inverosimile. Per adesso è, ancora, solamente un romanzo. Questa sua caratteristica lo rende digeribile, perché Guerriglia è una possibile anticipazione di qualcosa che tutti noi potremo trasformare in realtà o meno. Da questa possibilità, sempre insita nei romanzi, deve venire l’attenzione necessaria a non realizzare, oggi, azioni per contenere una realtà ancora assente, ma piuttosto a realizzare azioni affinché non si manifesti lo scenario ipotizzato. Si tratta di un’enorme differenza di prospettive che, spesso, la bassa politica confonde di proposito per costruire consenso.
Insomma, lo scenario proposto da Obertone richiama alla responsabilità di governare fenomeni e non di orientare consensi, estremizzando situazioni i cui germi prodromici sono presenti nella quotidianità, negati dagli uni o sopravvalutati dagli altri.
Ai tempi di Guerriglia, la Francia non regge più. La francesità è ormai un ricordo spazzatura, spruzzata del sangue della violenza, violata dall’inettitudine inerte di chi applica le regole, sopraffatta dalla menzogna della tutela ideologizzata della differenza: ciò emerge, nel volume, dalla rielaborazione dell’osservazione di fenomeni attuali, potenziati nei loro effetti dall’artificio narrativo.
Tra Guerriglia e Francia Arancia Meccanica, la Francia, l’Europa tutta, è sconvolta dall’attacco del terrorismo islamista: il 29 giugno 2014 viene proclamato il Califfato che seminerà morte nel mondo.
In quei mesi è cambiato profondamente il contesto globale e regionale.
La Terza Guerra Mondiale è stata denunciata essere in corso, più volte, anche da Papa Francesco, e descritta come una “guerra combattuta a capitoli”: si tratta di una comprensibile definizione della Guerra Ibrida. Un forma di conflitto diffuso, pervasivo e delocalizzato che è la conseguenza innominabile del processo di globalizzazione applicato ai conflitti. In parole semplici, possiamo immaginare un campo di gioco in cui una squadra entra per giocare a calcio, un’altra per giocare a rugby, una terza per giocare a pallavolo. Infine, arriva anche l’arbitro – in genere le Nazioni Unite – convinto di arbitrare una partita di tennis. Tutti i giocatori sul campo hanno in comune solo delle palle, anche di forme diverse, ma nessuna regola di gioco, nonostante tutti calpestino il medesimo terreno con l’obiettivo – esclusivo per ciascuno – di annientare il nemico. Oggi, le guerre sono così, guerre che non si dichiarano, che vedono il fallimento della Convenzione di Ginevra e del Diritto Umanitario Internazionale, strumenti per stemperare il combattimento.
Tutto quello che era, è ormai finito. Ma lo si nega.
La narrativa politica del consenso, che ha necessariamente espulso la parola guerra dal suo vocabolario, rifiuta il concetto di Guerra Ibrida perché solo la guerra tradizionale – asimmetrica o non convenzionale – legittima un’interpretazione del terrorismo come qualche cosa di diverso dalla guerra stessa: se, infatti, si considerasse il terrorismo come una delle parti in campo, non si potrebbe fare a meno di condividere l’idea che sia effettivamente in corso la Terza Guerra Mondiale. Ma è certo meglio pensare alla guerra come un fenomeno contenuto al di fuori dei confini geografici dei nostri Paesi, che invece sono minacciati, all’interno, dai terroristi: questa tematizzazione permette la politica del consenso, che non accetta la guerra, ed evita le responsabilità di governo, dovute all’evidenza della realtà.
Mentre cambia lo scenario, la Francia subisce, il 7 gennaio 2015, la strage nella redazione parigina del giornale satirico Charlie Hebdo. Lo stesso anno, a febbraio, sono i soldati ad entrare nel mirino di Daesh, poi, a giugno, due operai vengono decapitati nell’azienda del gas vicino a Lione, infine, ad agosto, gli spari sul treno Amsterdam-Parigi scuotono tanti.
Il 13 novembre 2015, è tempo del mattatoio di Parigi: dal Bataclan allo Stadio di Francia.
Senza andare per le lunghe, gli snodi principali di questa guerra sono, nel 2016, l’attacco alla Promenade di Nizza il 14 luglio e, la settimana dopo, lo sgozzamento del parroco a Etienne-de-Rouvray. Il 4 settembre 2016, un attentato viene sventato nei dintorni di Notre Dame, dove un’auto con bombole del gas sarebbe stata pronta ad esplodere. Si pubblica infine Guerriglia, a cui seguono, il 18 marzo 2017, l’attentato all’aeroporto di Orly e, ancora, un mese dopo, il 20 aprile, l’attacco ai poliziotti sui Campi Elisi di Parigi.
Intanto, anche Belgio, Germania e Gran Bretagna vengono squassati dal terrorismo: la paura monta, la rabbia cresce, la gente si rifugia sempre più nella prossimità rassicurante più facile da percepire, sia essa reale o simbolica: lo scenario di Guerriglia di Obertone trova i segni del suo annuncio sul campo. Ma con cura i media e la politica insistono nelle loro narrazioni i terroristi sono tutti francesi o belgi.
In effetti, Abdelhamid Abaaoud è un belga, come Salah Abdeslam (attacco di Parigi del 13 novembre 2015). Francese naturalizzato belga è anche Karim Cheurfi, nato nella periferia della capitale (attacco di Parigi del 20 aprile 2017): sono europei dai nomi esotici, per i quali si evita di sottolineare il totale fallimento delle politiche assimilazioniste che avrebbero dovuto garantire la loro francesità. Un fallimento generalizzato delle diverse politiche – ma col medesimo obiettivo dell’integrazione – degli altri Paesi europei.
La narrativa tuttavia è a senso unico: gli immigrati non possono avere nulla a che fare con i terroristi.
Si tratta di una affermazione forte che io preferisco declinare in questo modo: un migrante non è un terrorista. Affermazione alla quale ne aggiungo un’altra, egualmente forte: un terrorista è un migrante.
Anche per me, come per il nostro Obertone, si tratta di iperboli, non contraddizioni, esagerazioni che vogliono richiamare l’attenzione su un dato di realtà che viene sistematicamente negato per interesse: la cittadinanza che si afferma con orgoglio è esclusivamente burocratica e amministrativa, non è una cittadinanza fondata sulla appartenenza culturale e identitaria. La cittadinanza vera.
Si tratta di una cittadinanza che ha rinunciato alla condivisione di valori e di regole, atteggiamenti e comportamenti, ma ha definito i cittadini utenti funzionali dei servizi statali che sono l’unico collante della coesione sociale che deflagra nella Guerriglia. La cittadinanza necessaria.
La narrazione di Obertone è consapevole, l’autore conosce il mondo della realtà – e della fiction con cui la rappresenta – al punto da lanciare cenni chiari al lettore quando ripete che “i “normali” non avevano più un posto a questo mondo e dovevano incominciare a capirlo”. Tutto questo tra un colpo e l’altro di kalashnikov, o kalash come dicono i terroristi à la page. L’affermazione di eccezionalità dello scenario dipinto – dove la normalità non è più di casa – è ripetuta in diverse forme tra le pagine e offre, a chi è più attento, la possibilità di intervenire su un futuro che non si è realizzato ancora, dunque eccezionale.
In questo sta l’abilità magica del narratore: nel cogliere i segnali della realtà rielaborandoli in un racconto che, per il pubblico più ingenuo, sembra l’inevitabile risultato del presente, oppure in un racconto che, per un pubblico più attento, è lo stimolo ad agire in fretta per modificare il corso della storia ancora da scrivere.
Ovviamente i due approcci portano a interpretazioni diverse sia del romanzo – e del suo autore – sia della vita.
Nel primo caso – l’inevitabilità di Guerriglia – la paura reattiva non può che spingere il lettore a sposare una causa per la sopravvivenza, consumandosi in questo atteggiamento anche nella sua vita quotidiana e reale; oppure a spingere le autorità a vietare la circolazione dello stesso romanzo censurando l’autore, nell’ultimo tentativo di sopravvivenza della politica “a-governante” di negare i fastidiosi segnali di allarme che bruciano, realmente, le periferie francesi.
Nel secondo caso – la possibilità di Guerriglia – si tratta di cogliere i segnali di allarme lanciati da Obertone per affrontare con determinazione il tempo presente, al fine
di cambiare il futuro, che fino all’ultimo non è mai già scritto.Al lettore di Guerriglia non spetta alcuna “ardua sentenza”. È piuttosto chiamato ad un’azione consapevole che lasci al romanzo il solo spazio della fiction.
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