Torniamo al buongoverno, quello che sa amministrare

La politica non deve guidare il Paese verso un ipotetico bene generale, ma servirlo. Come al tempo dei Comuni

Torniamo al buongoverno, quello che sa amministrare

In un articolo dello scorso 29 luglio sul Giornale, intitolato «Oltre il potere, niente. Le guerre sottoculturali di destra e sinistra», Alessandro Gnocchi mette a nudo una triste realtà della politica culturale del nostro Paese e solleva una serie di questioni che interessano lo stato di salute delle culture politiche, la cui offerta non sembra soddisfare una grande parte dell'elettorato, se consideriamo l'alto grado di astensionismo alle ultime tornate elettorali.

Ne emerge un quadro desolante, una guerra per bande in cui destra e sinistra si contendono strapuntini di potere per piazzare spezzoni di aspirante classe dirigente, il cui unico scopo è occupare spazi, senza alcuna speranza che un solo problema venga seriamente affrontato e possibilmente risolto. Oggi è il turno della destra, ieri toccava alla sinistra, entrambe si contendono uno spazio sempre meno partecipato dalla cittadinanza, e il metodo è lo stesso: la convinzione che aver acquisito il voto della maggioranza degli elettori (nella migliore delle ipotesi) dia il diritto di mettere le mani sulla società, di governare in maniera totalizzante la vita civile, di definire i contorni del reale. Ci troviamo di fronte ad una colossale appropriazione indebita della società civile da parte di partiti sempre meno di massa e sempre più espressione di oligarchie anchilosate, il cui unico interesse è resistere all'evidente inutilità della loro presenza.

In questa dialettica maggioranza-opposizione, i ruoli di destra e di sinistra appaiono intercambiabili, l'una accusa l'altra con l'unico scopo di potersi sostituire al prossimo giro di giostra, si delegittimano a vicenda e si guardano allo specchio in un infantile «hai cominciato prima tu». Quella di Gnocchi è una puntuale fotografia della qualità dell'offerta politica italiana che ci dovrebbe far riflettere sulle culture politiche effettivamente disponibili.

In tale prospettiva, cogliamo l'invito di Gnocchi a riflettere su un tema che potrebbe intercettare l'interesse di coloro i quali questo modo di fare politica culturale lo subiscono e che non sono minimamente interessati al fatto che ad essere nominato al consiglio di amministrazione di un ente culturale sia un amico della Meloni o della Schlein. Scrive Gnocchi: «L'espressione geografica nota come Italia ha una segreta memoria della antiche autonomie, e forse potrebbe essere utile meno retorica sulla patria e più riflessione sulla varietà che ha fatto la grandezza della nostra penisola». È questo un tema classico della cultura politica cattolica, di matrice popolare e liberale (si pensi al contributo di Luigi Sturzo e di Luigi Einaudi), che è di fatto scomparsa e, nei confronti della quale, Gnocchi invita a prestare una maggiore attenzione.

Al cuore del municipalismo popolare abbiamo il comune. Esso è storicamente l'espressione delle relazioni orizzontali, dello scambio di beni e servizi, della sicurezza ottenuta mediante l'autogoverno dei suoi tanti ordini, del reciproco controllo che produce anche tensioni, conflitti, vinti e vincitori; una circolazione delle posizioni del potere, nei confronti della quale il potere costituito, l'impero, la chiesa e lo stato, hanno sempre diffidato, nutrendo timore e mostrando profonda insofferenza.

Sappiamo che amministrare significa servire, il verbo amministrare deriva dal latino administrare, agire da ministro, servire con oculatezza, ponderazione e giustizia. Colui che raziona la minestra non può non tener conto delle esigenze provenienti dal basso, di coloro che hanno fame, per questa ragione l'amministrare è una pratica del potere dinamica, particolarmente sensibile alla dimensione ascendente - bottom-up - e sussidiaria. Di contro, governare significa dirigere, il verbo governare, deriva dal latino gubernaculum, che stava ad indicare il remo-timone delle imbarcazioni. Governare significa imprimere la direzione del governante ai governati e, di conseguenza, è particolarmente sensibile alla dimensione discendente di tipo top-down, quanto di più distante dal principio di sussidiarietà.

Potremmo anche dire che, mentre il principio che muove l'azione di governo è di tipo monistico, nel senso che gli svariati interessi tendono a essere incanalati nella linea che i detentori del potere decidono essere prevalente per il raggiungimento di un ipotetico interesse generale, l'amministrazione rinvia ad un principio di tipo poliarchico, dato il riconoscimento, di fatto, di una miriade di centri di potere, ciascuno dei quali relativo ad una fonte che gli è propria, al punto da disegnare una società irriducibilmente «plurarchica», dove il problema del «buongoverno» si risolve nella governance degli innumerevoli buoni governi presenti nel comune.

È paradossale che in un'epoca come la nostra una tale offerta politico-culturale sia assente e che al centro della discussione, a destra come a sinistra, piuttosto che emergere una prospettiva poliarchica, popolare e

liberale, ne prevalga una statalista e partitocratica, sempre alla ricerca di improbabili padri nobili che vadano a comporre la galleria di un inutile pantheon, per nobilitare la prosaica occupazione dello spazio politico.

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