"Torniamo alle origini. Il rock resta ancora una forma di ribellione"

La band pubblica il disco "Elvis" e prepara il tour. "Blanco non doveva giustificarsi"

"Torniamo alle origini. Il rock resta ancora una forma di ribellione"

Ci sono due motivi per intitolare un disco Elvis.

«Il nostro motivo dipende dal bisogno di tornare alle origini, Elvis è una rifondazione. L'altro quale sarebbe?».

Elvis è un'idea di rock'n'roll vintage.

«I Baustelle si sono rimessi a suonare in sala prove, insieme, non è vintage».

Avete visto il film di Baz Luhrmann?

«Ce lo aspettavamo più musical, più alla maniera di Moulin Rouge! Invece è molto più un semplice biopic».

Elvis era più rockstar, più vincente o più perdente?

«Per certi versi è stato un perdente. E questa all'inizio era anche l'idea alla base di questo disco».

Il mondo dei «loser», dei perdenti, entra benissimo nella via musicale dei Baustelle che sono ovviamente tutt'altro che perdenti ma hanno sempre avuto la capacità quasi poetica di tratteggiarne i contorni. «Siamo soddisfatti - dicono Francesco Bianconi e Rachele Bastreghi, che parlerà pochissimo - perché siamo nati nel 1999 e siamo ancora qui». Insomma, la maggior parte delle band che li hanno ispirati «sono durate molto meno». Dopo una derapata verso il pop barocco (i due dischi L'amore e la violenza), con Elvis i Baustelle sono tornati alle coordinate del rock che piace a loro, a Lou Reed e ai Rolling Stones o ai T Rex e Bowie. I brani sono suonati «alla vecchia maniera» con pianoforti malinconici, batterie secche, chitarre irsute e testi che raccontano storie come quelle di Paola «che capisce di esser sola nel mondo» e Marco che «vorrebbe andare su Marte, una ragazza, farsi fare un pompino» in Andiamo ai rave («L'abbiamo scritta prima del famoso fatto di cronaca»). E lo fanno con i cori quasi gospel de Il regno dei cieli e citazioni colte o spesso sfacciate come in Betabloccanti cimiteriali blues dove Battiato è ricordato nell'impronta del brano ma pure nel verso del «convertito che si crede Battiato». Il suono dei Baustelle, che arrivano da Montepulciano e conservano la spigolosità toscana, è sempre riconoscibilissimo e non molto distante da quello che nel debutto Sussidiario illustrato della giovinezza del 2000 aveva conquistato il podio del rock alternativo e quindi, a stretto giro, il consenso sincero di pubblico e critica, anche quella più talebana. Francesco Bianconi, poi, ha scritto signori brani per altri, da Irene Grandi alla Anna Oxa dell'ultimo Sanremo. Un artista al cento per cento, questo toscano quasi cinquantenne, così come Rachele Bastreghi, figlia del grande direttore teatrale Mario e una delle rare donne davvero rock nel nostro Paese: «Abbiamo abituato le persone a non aspettarsi sempre la stessa cosa dai Baustelle». Insomma, spiegano tutti e due: «Se riguardiamo adesso indietro alla nostra storia, bisogna riconoscere che non abbiamo mai sbracato e siamo rimasti coerenti con noi stessi».

Stavolta stupite anche con i titoli: Gran Brianza lapdance asso di cuori stripping club andrebbe bene per un film della Wertmüller.

«Parla di una sorta di Elvis della Brianza che a un certo punto si innamora di una ballerina dell'Est e molla tutto».

Perché un «Elvis della Brianza»?

«Io mi immagino sempre Elvis nella fase finale della sua vita, grasso e sfatto e decadente».

I perdenti.

«All'inizio il nuovo album dei Baustelle avrebbe voluto essere un concept alla Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band dei Beatles, per carità senza fare paragoni ma solo per rendere l'idea. Insomma un disco che raccontasse i perdenti, o almeno le storie di alcuni perdenti. Una galleria di loser».

E poi?

«Poi tutto è cambiato, ma alcuni ritratti sono rimasti nei testi».

Vi ricollegate all'epoca dei rocker esagerati. Bowie. Lou Reed. Marc Bolan. Al loro confronto un ragazzo che rovescia dei vasi di rose su di un palco sembra un dilettante.

«Viviamo nel mondo delle giustificazioni a tutti i costi. L'arte non dovrebbe essere giustificata».

In sostanza?

«Se tu fai la trasgressione come ha fatto Blanco, perché poi giustificarsi? Oggi sembra proprio che, se vuoi fare il ribelle, lo puoi fare soltanto dentro la cupola del perdono».

Nel disco c'è Milano è la metafora dell'amore.

«Non è un inno pro Sala. È il nostro brano antifascista. Tutti dovrebbero riconoscere di esserlo, anche i governi di destra».

Tornerete dal vivo?

«Saranno concerti molto più suonati dei precedenti e mai uguali sera dopo sera.

Certo riadatteremo i classici come Charlie fa surf o La guerra è finita e cercheremo di trovare una dimensione nuova a tutto il nostro repertorio. Mi piace la riscoperta. Ho visto Bob Dylan cantare gli standard americani ed è stato meraviglioso».

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