I l fatto che i pesanti tagli ai fondi di dotazione ordinaria conferiti dallo stato mettano in serie difficoltà economiche le università italiane è un segnale assai positivo circa la loro condizione etica. Non è una battuta di cattivo gusto. Dal 2006 i governi britannici non hanno fatto altro che tagliare i fondi pubblici delle università, eppure queste non hanno mostrato alcun segno di difficoltà, al contrario. Difatti, secondo recenti stime, in una decina di anni su di esse sarebbero piovuti quasi 250 milioni di sterline tutti provenienti da governi dittatoriali, o quantomeno assai poco democratici, del mondo islamico.
Il fatto che mezza Europa, e diciamo pure mezzo Occidente, sia stato comprato da quei governi, è una voce che circola da tempo tra scrollate di spalle. La crisi libica sta rendendo più difficili le scrollate, ora che viene fuori che quasi tutte le principali imprese occidentali - Chevron, Honeywell, Pfizer, Glaxo, Shell, Vodafone, Alcatel, Bnp-Paribas, Unicredit, Siemens, e via elencando - hanno pesanti partecipazioni libiche; figuriamoci quale sarà il panorama completo delle partecipazioni di altri paesi non propriamente democratici. I condizionamenti politici ed economici determinati da tali partecipazioni sono materia da approfondire. Di certo, sarà sempre più difficile deridere come una fantasia da film di James Bond la formula «Eurabia» coniata da Bat Ye’or; casomai si tratterà di vedere se, tra non molto, bisognerà parlare di «Usabia».
Di certo, lo scandalo della London School of Economics (LSE), che rischia di estendersi ad altre università inglesi, getta una luce sinistra sulle finalità di queste «donazioni» e sui condizionamenti ideologici e politici che esse hanno prodotto. Non si tratta tanto del fatto che la celebre LSE abbia regalato un diploma di dottorato per una tesi copiata a uno dei figli di Gheddafi dopo la donazione di un milione e mezzo di sterline; e neppure soltanto del fatto, ancor più grave, di aver accettato più di due milioni di sterline per formare 400 funzionari del regime libico. Si tratta di capire fino a che punto l’università abbia accettato quattrini da molti altri governi tirannici e corrotti, in considerazione di atti sospetti come l’intitolazione di un teatro della LSE all’ex presidente degli Emirati arabi uniti. Da questo punto di vista, le dimissioni del direttore della LSE, Howard Davies, per la vicenda del figlio di Gheddafi, potrebbe essere un modo per concentrare l’attenzione su un episodio minore rispetto allo scandalo molto più vasto di aver svenduto una parte consistente del patrimonio universitario britannico a forze che predicano l’odio contro l’Occidente e in particolare contro Israele. Fino a che livello si siano spinti questa svendita e l'inquinamento ideologico è il punto da verificare. Di certo, quei quattrini non sono stati regalati in cambio di niente, visto il proliferare di centri islamici dediti a campagne di odio e il fatto che le università inglesi sono diventate i centri mondiali più attivi in quella oscena iniziativa che è il boicottaggio scientifico di Israele - qualcosa che non si è mai visto, neppure ai tempi dello stalinismo - quando, piuttosto si sosteneva giustamente che l’intensificazione dei legami scientifici e culturali è uno dei mezzi più efficaci per esportare la democrazia.
Oggi tutto il panorama andrebbe esplorato a fondo per capire fino a che punto il fiume di denaro giunto dagli ambienti del fondamentalismo islamico o dei regimi tirannici sia servito a creare centri di «studio», in particolare sul terzo mondo, sull’islam, sul Medio oriente, e sui «diritti umani», visti secondo l’ottica di quel politicamente corretto che ha trovato normale che la Commissione per il diritti umani dell’Onu fosse egemonizzata da paesi come la Libia, il Sudan e l’Iran. Oggi Gheddafi è diventato il reietto internazionale, ma ieri nessuno si scandalizzava per la presenza libica in quella commissione e, ancor oggi, poche voci in occidente si pronunciano sui delitti del regime iraniano; mentre il nuovo ministro degli interni francese ha mostrato la sua carta da visita intessendo le lodi della «moderazione» dei Fratelli Musulmani. È da anni che si constata che il sistema accademico britannico è la punta di lancia di un politicamente corretto suicida. Ora sappiamo che dietro quella ideologia diffusa e quelle campagne c’è stato un fiume di denaro e l’unica speranza è che la botola che si è scoperchiata non venga richiusa.
Oggi è il prestigio della LSE a essere crollato in modo drammatico e il confronto con i tempi in cui da essa uscirono 16 premi Nobel e personalità del livello di Karl Popper è impietoso. Sotto questo profilo conviene spendere qualche parola sulla credibilità delle classifiche internazionali che collocano le università inglesi nelle prime posizioni a livello mondiale. Per esempio, nell’accreditato QS World University Ranking del 2010, quattro università inglesi si trovano ai primi dieci posti e, sebbene la LSE figuri all’ottantesimo nella classifica generale, essa occupa il quarto posto, dopo Harvard, Oxford e Cambridge nella classifica delle università specializzate in scienze umane e sociali. È una posizione assai poco credibile per un’università che regala al figlio di un dittatore un dottorato per una tesi copiata in cambio di denaro, si acconcia ad addestrare funzionari di uno stato dittatoriale, mentre il suo direttore accetta l’incarico di consulente finanziario di quel governo e un suo teatro viene intitolato a un satrapo. In una recente intervista, l’ingegner Roger Abravanel, fautore delle valutazioni «oggettive» e autore del progetto «merito e qualità» per il nostro ministero dell’istruzione, ha affermato che le università israeliane sono eccellenti, ma di essere molto «irritato» nei confronti degli israeliani «perché sono pessimi nel marketing», il che ha come conseguenza che le loro università non siano menzionate fra le migliori del mondo.
Singolare contraddizione. Se le valutazioni sono «oggettive» le università israeliane stanno bene dove stanno e nessun marketing dovrebbe influenzare la loro posizione in classifica. Se invece è una questione di marketing - ovvero di sapersi vendere - allora non c’è da stupirsi che, con l’antisionismo in circolazione, le università israeliane siano svalutate e quelle inglesi spicchino in vetta.
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