Fra giugno 1945 e marzo 1946 Umberto di Savoia ebbe colloqui con un giovane ufficiale antifascista di nobile famiglia sarda impegnato nella guerra di liberazione, Giusto Matzeu, che gli riportava notizie dal fronte e dal Nord. Comandante della zona Basso Lario, questi non era solo un combattente, ma anche un uomo di formazione umanistica che nel dopoguerra avrebbe pubblicato lavori di poesia e critica letteraria e sarebbe stato professore a Milano.
Fra i due si stabilì un rapporto di empatia che finì per dare ai loro incontri un carattere più confidenziale rispetto alle interviste rilasciate da Umberto, durante la Luogotenenza e il Regno, a giornalisti e scrittori come Nino Bolla, Giovanni Mosca, Carlo Maria Franzero, Silvio Maurano, Luigi Cavicchioli, Giovanni Artieri... I colloqui non erano destinati alla pubblicazione, ma alla vigilia del referendum istituzionale Matzeu pensò di rifonderli in volume. Il libro, completato nel 1948, quando Umberto era ormai in esilio non fu tuttavia pubblicato e solo ora vede la luce col titolo Umberto II. Dalla Luogotenenza al regno. Gli inediti colloqui con Giusto Matzeu (Edizioni San Faustino, Brescia, pagg. 344, euro 19) a cura di Marco Gussoni che ne ha reperito sul mercato antiquario il dattiloscritto originale.
Umberto riceveva Matzeu per dovere d'ufficio, per ottenere informazioni sulle operazioni belliche e raccogliere giudizi su persone impegnate nella guerra di liberazione, ma non si limitava a questo e si lasciava andare a considerazioni storico-politiche. Il primo colloquio avvenne il 12 giugno 1945, poche ore prima che Ivanoe Bonomi rassegnasse le dimissioni e aprisse la crisi di governo che si sarebbe risolta con la nomina di Parri.
Umberto chiese a Matzeu un parere e questi fu categorico: «Parri non è adatto per essere capo di un governo». Peraltro egli non cambiò idea e lo nominò perché, secondo lui, questi, voluto dal Nord e dai partiti, era «l'uomo della situazione» e sarebbe stato bene «metterlo alla prova, vederlo all'opera» anche per verificare quanto se ne diceva, e cioè che fosse «uomo modesto, laborioso e tenace». L'episodio mostra come Umberto facesse valere la sua volontà nelle decisioni politiche importanti. Ne rivela anche l'antifascismo: al suo interlocutore disse che i partigiani erano «l'espressione di tutto il popolo italiano, il simbolo della rivolta ideale» e aggiunse che sarebbero dovuti «rimanere sempre uniti, al di sopra dei partiti e lontani dalle competizioni politiche» perché solo così avrebbero potuto avere «un ruolo definitivo nella vita del nostro Paese».
Educato al «mestiere di Re», Umberto aveva una visione della monarchia come istituzione regolatrice della dialettica politica: «La monarchia è al di fuori e al di sopra dei partiti, la sua funzione è al di fuori delle mischie della piazza, in un equilibrio che consente la tutela di tutte le correnti politiche e garantisce l'esercizio di tutte e pubbliche libertà. Nella lotta democratica, le minoranze possono diventar maggioranze, e queste, o per imperizia o per incapacità, e spesso anche per elefantiasi, o mutamenti politici, possono sfaldarsi: la monarchia ha una funzione sociale e giuridica attraverso la quale garantisce tutti i processi di evoluzione democratica e la possibilità, con i mezzi legali, di arrivare al potere». Si trattava di una visione moderna, democratica e liberale dell'istituto monarchico e non è un caso che Umberto precisasse che «democrazia e libertà sono due termini e coincidono, due ideali che si fondono in uno solo».
Concetti, questi, che egli aveva già sviluppato in una celebre intervista rilasciata nell'ottobre 1944 al giornalista americano Herbert Lionel Matthews: una intervista che aveva spinto l'interlocutore a concludere che meta dei monarchici italiani sarebbe stata quella di «una monarchia liberale e democratica», insomma una «monarchia di sinistra». In realtà Umberto aveva riaffermato l'intenzione di volersi considerare al di sopra dei partiti politici aggiungendo che il sentimento monarchico non avrebbe dovuto «materializzarsi in un partito politico» e precisando, ancora, che la monarchia non avrebbe ostacolato i programmi «socialmente molto avanzati» che caratterizzavano tutti i partiti politici.
Ciò spiega la sua posizione nei confronti del referendum istituzionale. Nel colloqui con Matzeu, per esempio, egli rifiutava, contro il parere dell'interlocutore e di altri consiglieri, di coinvolgere ufficialmente la Corona nella battaglia politica. Per lui, infatti, il referendum era solo «una consultazione popolare» attraverso la quale il popolo avrebbe potuto «liberamente esprimere la sua volontà» e aggiungeva che Casa Savoia aveva «accettato il referendum, ossia il cosciente responso del popolo» anche tenendo presente il fatto che essa era «giunta al Trono d'Italia attraverso quelle vie con i plebisciti popolari». Le preoccupazioni del suo interlocutore sulle garanzie di una consultazione serena e sull'equanimità del controllo degli Alleati non lo coinvolgevano più di tanto avendo egli aveva fiducia nelle popolazioni, nelle istituzioni, nella magistratura.
La sua concezione di una monarchia che considerava «tutti gli italiani come cittadini uguali, anzi come propri figli, compresi coloro» che non l'avrebbero votata; questa concezione implicava, a suo parere, la necessità di ampio consenso. Una battuta di Umberto è significativa: «Casa Savoia non può, e non vuole regnare senza il consenso del popolo». È una battuta che comporta altre conseguenze come, per esempio, quelle contenute nelle risposte alle domande poste da Matzeu nell'ultimo incontro: se, in caso di vittoria monarchica con un margine del dieci per cento il referendum sarebbe stato ripetuto e, ancora, se, in caso di vittoria repubblicana frutto di possibili brogli o inganni elettorali, egli avrebbe lasciato l'Italia per evitare lotte fratricide e spargimenti di sangue. Le convinzioni di Umberto spiegano il suo comportamento e la scelta di partire per l'esilio anche di fronte alle resistenze dei consiglieri più stretti e al loro invito a resistere e reagire alla patente violazione del diritto, un vero e proprio «colpetto di Stato» (come lo avrebbe definito Luigi Barzini), perpetrata dal governo con la dichiarazione della vittoria della repubblica senza che questa venisse proclamata dalla suprema Corte.
Nel volume si trovano precisazioni importanti su fatti e momenti della storia più recente, dalla lotta partigiana alla nascita del Regno del Sud ai rapporti con gli alleati, ma soprattutto vi si trova un ritratto inedito di Umberto che appare non già un personaggio politicamente sbiadito quanto piuttosto una persona di spessore culturale e politico, realmente preoccupato del bene del Paese.
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