Mentre le Fondazioni italiane ricorrono ad artifici da hedge fund per racimolare qualche soldo e limitare i danni in Unicredit, i sultani di Abu Dhabi ne ipotecano la poltrona di primo azionista pagando in petrodollari. Il fondo sovrano Aabar ha rastrellato i diritti necessari per salire dal 4,9% al 6,5% di Piazza Cordusio. Controllerà da solo un pacchetto pari alla metà di quello (12,5%) che le Fondazioni italiane, tutte insieme, faticheranno a presevare al termine della ricapitalizzazione da 7,5 miliardi. Stante i limiti dello statuto Abu Dhabi, come già la Libia, potrà votare «solo» per il 5% e professa una fiducia incondizionata in Piazza Cordusio: «Intendiamo partecipare all’aumento e sostenere la società e il suo management nel futuro», ha detto il presidente di Aabar, Khadem Al Qubaisi, aggiungendo di credere sia «nel valore intrinseco della banca» sia nella sua «rilevanza» in ambito italiano ed europeo. Aabar aggiunge che intende essere «uno degli azionisti più significativi» di Unicredit e garantisce il proprio «supporto» all’attuale squadra di vertice. «Siamo stati azionisti di Unicredit dal marzo 2009 e continuiamo - conclude Al Qubaisi - ad essere favorevolmente colpiti dalla posizione del gruppo quale leader italiano ed europeo nel mercato bancario».
L’avanzata ha dato slancio a Unicredit in Borsa (+2,8% a 3,01 euro) mentre i diritti si impennavano del 12,3% a 1,93 euro. La giornata ha poi sancito il ritorno di istituzionali di «qualità» come Capital Research che ha ufficializzato di aver raggiunto il 2,5%, e l’accavallarsi dei report: Deutsche Bank ha fissato un target price di 5,3 euro. La silenziosa scalata di Abu Dhabi, cui probabilmente si accoderanno altri Paesi del Golfo come il Qatar, nella principale banca italiana non può che aver tenuto banco al summit dell’ad Federico Ghizzoni e del vice presidente Fabrizio Palenzona con Roberto Napolitano.
Aabar ha comprato a prezzi di saldo: Unicredit passa di mano in Borsa a valori prossimi al 34% dei mezzi propri tangibili contro una media del 55% per le concorrenti europee. Poco, secondo gli analisti, anche considerando che Piazza Cordusio è meno generosa in termini di Roe, complice un costo dell’equity stimato al 12% (contro il 6,5% dei Btp) e il problema della qualità del credito.
Il paradosso è che a spianare la strada agli esteri sono state le Fondazioni italiane. A corto di liquidità e privi di dividendi, alcuni Enti si sono lanciati in arditi arbitraggi sui diritti (a partire da quelli legati al prestito Cashes custodito da Mediobanca) e nell’utilizzo di derivati che hanno finito con l’esacerbare la tempesta che ha flagellato Unicredit nei primi giorni dell’aumento. Carimonte non solo si è diluita dal 3,1% al 2,9% ma ha dato in «prestito» un pacchetto pari all’1,6%, lasciando in cassaforte solo il restante 1,3%. È probabile che tale strada sia stata percorsa anche da Cassamarca, CariTorino e da altri enti minori alla ricerca di denaro da reinvestire sull’istituto.
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