Non sono stato, beato me, fra le centinaia di migliaia di vittime del corteo di manifestanti che oggi ha tormentato Roma e i romani. Le proteste per le strade del centro riescono sempre e soltanto a avvilire le vite di chi ha bisogno della città, di chi la usa per campare, e non i fortunati che ormai con un computer o un fax sono a posto. E è proprio questa la prima domanda da porre agli scioperanti, irati quanto festosi, in buona parte ricercatori e professori universitari. La domanda è: possibile che professori e ricercatori universitari - cioè il meglio che dovremmo avere nel campo dell'innovazione e, appunto, della ricerca - non riescano a concepire, a ipotizzare una forma di protesta più nuova e originale, meno genericamente sadica, democraticamente ingiusta, feroce prima di tutto verso quei cittadini di cui si vuole avere l'attenzione? No, non ci riescono, non ci provano neppure, e questo la dice già lunga sullo stato della nostra università.
Quella domanda l'ho fatta - oh, quanto provocatoriamente - proprio a gruppi di ricercatori-manifestanti. Ne sono venuti fuori dialoghi surreali, sull'onda della celentanite di questi giorni, tutti sintetizzabili così: «Ma perché non trovate una forma di protesta diversa da quella di vaccari e metalmeccanici, tubisti e disoccupati?». «Perché Berlusconi ha tutte le televisioni, e allora per andare sui telegiornali bisogna fare così». «Dunque sui telegiornali ci andrete?». «Così sì». «E Berlusconi ha tutte le televisioni?». «Sì, e le usa a comodo suo». Bene, bravi, bel modo di dimostrare la coerenza, l'efficacia, la verità delle proprie convinzioni. Speriamo che le vostre ricerche vadano meglio, ragazzi.
È innegabile che l'università italiana abbia problemi giganteschi (anche, se non soprattutto, per eccesso di discenti e scarsa qualificazione dei docenti), ma non è negabile che la riforma Moratti sia un tentativo serio di risolverne alcuni fra i più grossi, primo fra tutti il sistema baronale, non certo voluto da questo governo, che da sempre inquina atenei, ricerca, apprendimento. Ovvero le cattedre assegnate per potentati e sudditanze più che per merito, per criteri geografico-economici e non per necessità formative, per distribuire stipendi stabilissimi di precariato più che per partecipare alla competizione dei migliori a livello mondiale, che dovrebbe essere il fine di un'università moderna.
Il nocciolo della riforma è buono e lo dimostra proprio chi vorrebbe accusarla del contrario con un argomento risibile. La «Moratti» istituisce bandi di concorso nazionali per impedire ai baroni di esercitare un medievesco valvassoraggio; fissa limiti al precariato eterno di chi non è abbastanza bravo da distinguersi ma lo è abbastanza da ricevere a vita un inutile stipendio; dà la possibilità a imprese, fondazioni e enti di finanziare e favorire cattedre necessarie alla modernità un po' più di quelle sulla tristezza di Leopardi e su papé satan aleppe.
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