Gli Usa alla Cina: «La repressione va fermata subito»

«Il popolo deve poter dimostrare. Non va bloccato in eterno il desiderio di libertà»

da Washington

Frustrata dal blocco delle sue proposte all’Onu, l’America va avanti da sola, per lo meno a parole, nella campagna contro la repressione della giunta militare in Birmania. Meno di 24 ore dopo che la minaccia di veto cinese aveva messo fine a una inconcludente sessione del Consiglio di sicurezza, la Casa Bianca ha spedito al regime un messaggio per metà invito e per metà ingiunzione. «Il governo birmano - manda a dire il presidente George W. Bush - non può bloccare eternamente il desiderio di libertà del suo popolo. La violenza contro le dimostrazioni pacifiche deve cessare, subito».
Un portavoce ha ribadito che il capo della Casa Bianca considera la situazione come «intollerabile». Gli Stati Uniti continueranno a intensificare le pressioni internazionali sul Myanmar, che però Bush continua a chiamare con il suo vecchio nome: Birmania. «Il mondo ci guarda, ma abbiamo anche bisogno che il mondo agisca». Per adesso l’America porterà avanti da sola le sanzioni finanziarie del Paese asiatico. A differenza che nella crisi parallela con l’Iran, un intervento militare è in questo caso escluso, ma le pressioni politiche continueranno, con la collaborazione assicurata dell’Europa Occidentale.
Di rado se non mai negli ultimi anni i governi delle due rive dell’Atlantico hanno raggiunto una tale sintonia di vedute. E anche l’opinione pubblica americana, in genere non bene informata sui Paesi molto lontani, si mostra sensibile a una campagna fondata sui diritti umani, che potrà far recuperare all’America il compenso e le simpatie del mondo, molto diminuite a causa della guerra in Irak. Sono mobilitabili anche quei settori che respingono come pericolosa la dottrina, cara a Bush, della democratizzazione forzata di Paesi stranieri anche attraverso lo strumento militare.
Nel caso della Birmania, poi, le opzioni economiche sono limitate perché sia gli Stati Uniti sia l’Europa hanno parte ben piccola negli scambi commerciali della Birmania, la cui economia è orientata più che mai verso la Cina. Si tratta dunque di convincere Pechino a fare qualcosa di più di quello che ha fatto finora con i metodi e lo stile della diplomazia cinese post-maoista, basata sulle necessità prioritarie di materie prime per alimentare un boom durato oltre due decenni. Pechino è contraria allo strumento delle sanzioni e si dedica invece volentieri alle mediazioni.


Nel caso della Birmania è tuttora prevalente il fatto che quel Paese è esportatore di energia di cui la Cina è affamata e ciò le garantisce anche una proiezione strategica nell’Oceano Indiano. Anche in questo caso: Pechino appoggia la missione affidata a Ibrahim Gambari, consigliere speciale del segretario dell’Onu, che è già partito per il Sud-Est asiatico. Rangoon gli ha già concesso il lasciapassare.

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