La democrazia rappresentativa è in una crisi che alcuni paragonano a quella della fine degli anni Venti. Rispetto ad allora, più che della credibilità del parlamentarismo, si dubita della rappresentabilità del popolo. Cosiddetta governance e ascesa del populismo ci fanno interrogare sul senso di una parola usata con sempre meno rigore: democrazia.
Sono ormai rari gli uomini di sinistra che, come Karl Marx, colgano nella democrazia la trovata della borghesia per disarmare e ammansire il proletariato; e sono ormai rari gli uomini di destra che - come i controrivoluzionari - vedano nella democrazia la «legge del numero» e il «regno degli incompetenti» (ma senza suggerire come sostituirla). Salvo eccezioni, a scontrarsi non sono più fautori e avversari della democrazia, ma fautori che la pensano diversamente.
La democrazia non mira alla verità. È solo il regime che pone la legittimità politica nel potere sovrano del popolo. Ciò ne implica uno. In senso politico un popolo si definisce come una comunità di cittadini dotati politicamente delle stesse capacità e legati da una regola comune all’interno di uno spazio pubblico. Fondata sul popolo, la democrazia è anche il regime che fa partecipare ogni cittadino alla vita pubblica, perché tutti possano occuparsi degli affari comuni. Di più: essa non proclama solo la sovranità del popolo, ma vuol mettere il popolo al potere, permettergli d’esercitarlo.
L’homo democraticus non è un individuo, ma un cittadino. Quella greca fu subito democrazia di cittadini, cioè comunitaria, e non società d’individui, cioè di singoli. Individualismo e democrazia sono in origine incompatibili. La democrazia esige uno spazio pubblico di deliberazione e decisione, che è anche d’educazione comunitaria per l’uomo, considerato naturalmente politico e sociale. Quando si dice che la democrazia permette ai più di partecipare agli affari pubblici, va ricordato che, in ogni società, i più includono una maggioranza d’individui delle classi popolari. Una politica davvero democratica va considerata, se non quella che privilegia gli interessi dei più poveri, un «correttivo al potere del denaro» (Costanzo Preve).
Ma più la democrazia viene imposta, più viene snaturata, tant’è vero che il «popolo sovrano» per primo se n’allontana. In Francia, l’astensione e il voto-sanzione sono mezzi per esprimere l’insoddisfazione sul funzionamento della democrazia. Dopo di che, il voto protestatario ha ceduto il posto al voto di disturbo, per bloccare il sistema. Il politologo Dominique Reynié la chiama «dissidenza elettorale», vasto schieramento di scontenti e delusi. Alle presidenziali francesi del 2002, la dissidenza riuniva già il 51 per cento degli iscritti al voto, contro il 19,4 nel 1974; essa ha raggiunto il 55,8 alle legislative seguenti. Nelle presidenziali del 2007, la partecipazione è risalita, poi è crollata ancora. Alla dissidenza elettorale aderiscono soprattutto le classi popolari, dunque inesistenza civica e invisibilità elettorale sono tipiche degli ambienti ai quali la democrazia aveva dato il diritto «sovrano» di parlare. Sempre in Francia la convergenza al centro dei programmi dei maggiori partiti politici ha avuto per conseguenza ieri l’ascesa del nazionalpopulismo (fenomeno Le Pen), oggi il ritorno d’influenza dell’estrema sinistra antagonista. Mentre in Italia l’estrema sinistra antagonista è finita fuori dal Parlamento.
Ovunque s’assiste - simultaneamente e da anni, ma stavolta a partire dall’alto - allo snaturamento della democrazia, di cui la Nuova Classe politico-mediatica, per salvare i suoi privilegi, intende restringere al massimo la portata. Jacques Rancière ha parlato di «nuovo odio della democrazia», riassumibile così: «La sola democrazia buona è quella che frena la catastrofe della civilità democratica». Idea dominante: non abusare della democrazia, salvo uscire dallo stato di cose presente.
Si snatura la democrazia facendo dimenticare che essa è una forma di regime politico, prima che una forma di società. Si snatura la democrazia presentando come democratici tratti di società - come la ricerca d’una crescita illimitata di beni e merci - inerenti invece alla logica dell’economia capitalista: «democratizzare» significherebbe produrre e vendere a ceti sempre più larghi prodotti dal forte valore aggiunto. Si snatura la democrazia favorendo condizioni per il caos istituzionalizzato, reso sacro come solo ordine possibile, come esito di una necessità storica davanti alla quale ognuno, per «realismo» («il buon senso delle canaglie», lo chiamava Bernanos), dovrebbe piegarsi... L’ideale della governance, il modo di rendere non democratica la società senza affrontare la democrazia: senza sopprimerla formalmente, si lavora a un sistema di governo senza popolo. Se del caso, contro.
Praticata ormai a ogni livello, la governance vuol dire subordinare la politica all’economia, grazie alla «società civile» trasformata in puro mercato. Per dirla con Guy Hermet, essa sembra «il modo d’arginare la sovranità popolare». Privata di contenuto, la democrazia diviene democrazia di mercato, spoliticizzata, neutralizzata, affidata agli esperti, sottratta ai cittadini. La governance aspira a una società mondiale unica, votata all’eternità - perché anche la temporalità viene reificata. Spoliticizzare, neutralizzare la politica, significa che le poste in gioco sarebbero in luoghi che non sono luoghi, eliminando ogni ostacolo all’ambizione di non aver limiti della forma-capitale. Per Jean Baudrillard, «la grande trovata del capitale è aver reso tutto feudo dell’economia», subordinando al capitalismo liberale tutta la società. Questa non è una nuova teoria cospirazionista sui «padroni del mondo». La governance è solo conseguenza di un’evoluzione delle società in corso da decenni. Criticare la governance non significa considerare il popolo come «buono per natura» e corrotto dai cattivi. Il popolo non è senza difetti. Con Machiavelli e Spinoza si può però pensare che i difetti del volgo non si distinguano da quelli dei principi - e nella storia sono state soprattutto le élite a tradire.
(Traduzione
di Maurizio Cabona)
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