Vasco va a letto presto

Ora il Blasco è un antieroe disilluso che vive con Laura e il figlio Luca. E in Il mondo che vorrei racconta i suoi interrogativi tra la "vita esagerata" e il "sano, contadino" bisogno di normalità

Vasco va a letto presto

Milano - Il fatto che il dottor Vasco Rossi, 57 anni, laurea honoris causa in comunicazione, diciassette dischi e una popolarità senza incrinature, racconti che solo a concerti conclusi, e dunque senza rischio, si concede ormai un paio di whisky. Che da vent’anni viva con Laura e col loro figlio Luca, e da tempo non gira più per discoteche a insidiare le ragazze. Che ammetta d’aver messo da parte, diligentemente, i soldi per gli studi di Luca e degli altri suoi due rampolli, avuti da altre madri. Che dedichi buona parte del suo tempo a leggere libri di storia e di filosofia, tant’è che, nell’ultima chiacchierata che facemmo insieme, mi lasciò gradevolmente allocchito parlando di Kierkegaard, Hegel e Epicuro con una cognizione di causa non frenata dall'accento emiliano. Ebbene, tutto ciò non induca nessuno a definire il dottor Vasco, magari citando a sproposito il suo nuovo album Il mondo che vorrei, come un reduce rifluito, o un guastatore pentito, o uno di quei piromani che col favore dell’età diventano pompieri.

Perché poi il cantore della Vita spericolata, quella, sapete, maleducata, esagerata, alla Steve McQueen, fa capire che quella bellissima pagina non era soltanto una finzione letteraria, o una sbruffonata da rockettaro: era il suo modo di ovviare alla realtà con il sogno, tant’è che oggi il Vasco canta che «è proprio quello che non si potrebbe che vorrei / ed è sempre quello che non si farebbe che farei / ed è come quello che non si direbbe che direi / quando dico che non è così / il mondo che vorrei». Dove la raffica dei condizionali, quasi uno scaramantico mettersi al vento, lascia capire che da un lato, «adesso che sono arrivato / fin qui grazie ai miei sogni / che cosa me ne faccio / della realtà», dall'altro è pur vero che la realtà ti s’impone, impossibile non subirla, ma nulla può sottrarti l’antidoto del sogno e allora sì che la vita spericolata ha ancora un senso: va be’ che non siamo riusciti, or sono molt’anni, a portare la fantasia al potere, ma nessuno è riuscito a neutralizzare del tutto, nelle coscienze di molti, il potere della fantasia.

E dal nuovo disco, e interviste relative, appare chiaro che il dottor Vasco questo potere lo realizza in sé pur senza che l'esistenza gli abbia consentito, a parte un paio di disavventure, di realizzare nei fatti quella vita spericolata che nessuno come lui ha saputo cantare in modo così aguzzo. Ed ecco che «la vita - assicura - è un’esperienza troppo personale per non lasciare che ognuno se la viva come meglio crede». Dunque, in libertà: che è poi l’unica utopia che in Vasco sopravvive, non certo la politica - «Sono iscritto ai radicali ma solo per gratitudine: quand'ero in galera Pannella mi scrisse una lettera» -, non la religione - «chi crede in Dio ne trae conforto, dunque mi piacerebbe credere», - non la natura «che costringe il leone a divorare la gazzella quando sarebbe meglio che lo avesse creato vegetariano».

Basta questo a vivere, sia pure da eroe, o antieroe, marginale, un'esistenza che risulti davvero gratificante, per un ribelle catturato da un mondo dove ribellarsi è pressoché impossibile, salvo per quei rivoluzionari che, diceva De André, «una volta fatta la rivoluzione diventano amministratori»? Mica tanto, ché «neanch'io posso vivere come un cartone animato», ammicca il Vasco: e poi c’è la famiglia che ti costringe alla stabilità, c’è la speranza che in fondo alla tua vita si profili, ad accoglierti, un angelo o almeno un bel momento di rock, solo che di angeli non se ne vedono e allora, dice il dottor Vasco, che rock sia, a cinquantasette anni e fino all'ultimo fiato.

Questa in velocissimi tratti è l'esistenza poco spericolata, poco alla Steve McQueen, molto visitata da interrogativi e riflessioni di un aspirante incendiario che si ritrova con non soverchiante entusiasmo, e con riconoscibile senso della responsabilità a fare il pompiere, salvo che nei sogni. Sempre in bilico tra l'aspirazione a «una vita esagerata», una vita come nei film, e un sano, contadino, emiliano bisogno di normalità: «Infatti ogni tanto - confessa il Vasco - me ne vado a Los Angeles, dove nessuno mi conosce e posso andare al supermercato, entrare nei bar, gironzolare per strada senza essere crocifisso dai paparazzi». Un’esistenza dunque ambivalente, dipanata con chiarezza assoluta, e perfino per lui inusitata, in questo nuovo disco non stratosferico - del resto Vasco riesce a essere stratosferico soprattutto quando non vuol esserlo - ma verace, come è appunto il vero rock. Disco dove lui non racconta nulla di nuovo ma incasella tutto quello che è stato fino a oggi, i sogni, l'amore, la voglia di saggezza e la paura di saggezza, le utopie, le tramvate, la quotidianità e il delirio, in una sorta di bilancio né mesto né compiaciuto, bilancio e basta.

È un bel «vizio», sarà un caso, di tanti tra i nostri più grandi cantori e dei loro ultimi album, da Zucchero a De Gregori a Jovanotti, tutti un po’ di qua o al di là del mezzo secolo: guardarsi indietro, non azzardare passi in avanti né inversioni di marcia, non smentire nulla del passato e non trovargli surrogati, semplicemente riconsiderare, analizzare, ripossedere l'angolo visuale che per una vita li ha condotti a parlarci d'amore, di socialità, di vita, di illusioni.

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