Il vecchio rinnova il nuovo. È la condanna della Russia

Il Paese fra l'ascesa di Gorbaciov e la dissoluzione dell'Urss. Con gli uomini d'affari al posto degli idealisti

Il vecchio rinnova il nuovo. È la condanna della Russia

Petrovic, il protagonista di Underground (Guanda, pagg. 630, euro 24, traduzione di Sergio Rapetti, introduzione di Emmanuel Carrère) e l'alter ego del suo autore, Vladimir Makanin (1937-2017) è uno scrittore senza nome, è solo il patronimico a connotarlo, e senza libri. Ha smesso di scrivere, anche se non di leggere, non è mai stato pubblicato. Appartiene alla generazione nata sotto Stalin, ventenne al tempo del disgelo krusceviano, e poi ritrovatasi senza più speranze, tantomeno illusioni, immersa nella lunga stagione del breznevismo, un'estenuante, dolorosa e insieme pericolosa diarrea ideologica, economica e politica che svuotava l'Urss dall'interno mantenendone però intatta la carcassa con tutto il suo automatismo repressivo.

A stretto rigore di termini, Petrovic non può essere considerato né considerarsi un dissidente, tantomeno un oppositore. È stato sì espulso dall'istituto di ricerca in cui lavorava, ma si è trattato più di un incidente di percorso che di una volontà sovversiva. Gli è stato risparmiato il carcere, il gulag o l'ospedale psichiatrico, ovvero il manicomio, dove invece è finito suo fratello, Venedikt Petrovic, detto Venja, giovane artista geniale e ribelle a cui il Kgb ha fatto pagare cara la sua ironica sfrontatezza. Lui, Petrovic, si è limitato a divenire un aghé, diminutivo di agenshik, neologismo delle iniziali di anderground, la denominazione russa di quel termine straniero che è anche il titolo del romanzo. Per certi versi, si tratta della stessa cosa, a Occidente come a Oriente, ovvero della sottocultura o controcultura o cultura del sottosuolo, quale già echeggiava, sia pure con accenti diversi, in un libro di Dostoevskij, e insomma quel fenomeno di arte e di vita non conformista, proprio della metà degli anni Sessanta di qua e di là dell'Oceano, con l'unica ma significativa eccezione che in Urss il samizdat, ovvero la stampa alternativa, è vietato, un attentato contro lo Stato, e quindi clandestino, mentre nel cosiddetto mondo libero è un titolo di merito che spesso apre le porte della cultura ufficiale, nella logica per cui si nasce incendiari e si muore pompieri. In quell'Urss, insomma, gli incendiari muoiono bruciati.

È anche per questo che Petrovic, come recita i sottotitolo del romanzo, è «un eroe del nostro tempo», riferimento al celebre e omonimo romanzo ottocentesco di Lermontov, ritratto in chiaroscuro della generazione romantica e velleitaria della Russia zarista. Petrovic è il rappresentante di chi cerca di mantenere intatto il proprio io, a dispetto di tutto e di tutti, sacrificando tutto e tutti, persone care comprese, pur di mantenere un sia pur minimo brandello di coscienza individuale. Vive facendo quando può il guardiano notturno, di appartamenti, di condomini, di depositi; salta spesso i pasti: dorme dove capita e con chi capita, beve quando capita.

Ora, l'elemento più interessante di Underground, di là dalle sue innegabili quanto stupefacenti qualità stilistico-letterarie, rese molto bene dalla traduzione di Sergio Rapetti, approntata per questa nuova edizione a più di dieci anni dalla sua prima pubblicazione in Italia, è il suo essere ambientato negli anni che intercorrono fra l'ascesa al potere di Gorbaciov, la sua detronizzazione e il nuovo corso di El'cin, in sostanza la fine dell'Urss e del comunismo, la nascita della nuova Russia con il suo combinato disposto di liberismo e democrazia. Nei confronti di questo cambiamento epocale, il protagonista di Underground mantiene lo stesso atteggiamento di rifiuto, scettico e disincantato, che aveva avuto sotto il breznevismo, come se l'uno e l'altro fossero le due facce di un'identica medaglia, come se la sovrastruttura ideologico-repressiva del primo si perpetuasse in un nuovo corso apparentemente libertario, ma nella sua essenza altrettanto totalitario, dove è l'economia il carburante ideologico ora usato e la lotta per il potere e per la sopraffazione resta identica, anche se rivestita con abiti più sgargianti.

Se Petrovic appartiene a quella che si può definire una «generazione letteraria», quella che invece egli stesso ha ora sotto gli occhi, di un quarto di secolo più giovane, «è la generazione dei politici e degli uomini d'affari. Dal luminoso squarcio dei memorabili (per me e la mia generazione) anni Sessanta e parte dei Settanta è emersa proprio l'immagine di una viuzza sghemba di Mosca, e in essa, dove svoltava, due o tre giovani in maglione (i jeans non erano ancora di massa). Sì-sì in maglione - maglioncini modesti, tutti e tre con racconti e novelle nelle cartellette strette sotto il braccio (...). Allo stesso modo, in questi anni Novanta per le stesse vie e viuzze di Mosca incede la generazione degli uomini d'affari (...). Al diavolo i politici coi loro brutti ceffi e i giornalisti televisivi con i loro musetti melliflui - schiuma! (semplice schiuma del primo lavaggio, la più sporca). Invece i nostri incedono coi loro completi giacca e pantaloni, cravatte, telefonini pigolanti in tasca, e anche loro parlano di ciò che più sta loro a cuore: il business, liquidità e fondi neri, l'andamento della borsa e le tasse che li soffocano».

Ciò che sta allora succedendo nell'ex Urss è insomma un gigantesco abbaglio o, se si vuole, uno spettacolo di prestidigitazione, sotto gli occhi più o meno compiacenti o più o meno interessati di una platea che non è tanto o solo nazionale, il popolo russo chiamato a mobilitarsi contro il potere dopo che per settant'anni è stato abituato e/o obbligato a inchinarsi davanti al potere, ma internazionale, la grande finanza e le grandi potenze pronte al saccheggio e insieme alla rivalsa contro quello che era stato il nemico di ieri, «l'asse del male»... I russi, naturalmente, ci mettono del loro: «I democratici della prima ora si stavano già squagliando, non erano stati capaci di mettere davvero le mani sulle leve, levette, manubri e altri ingranaggi che costituiscono il vero potere di comando. Si reggevano ancora per inerzia, ma già chiamavano in aiuto (per far ripartire i rugginosi ingranaggi) gente legata al passato (...). Mezze tacche sì, però di lungo corso, avevano fatto in fretta a risalire i gradini, dalla quinta fila dove li avevano relegati, fino ai posti che contavano, spingendo via il democratico (un onesto chiacchierone), magari facendolo incagliare in un ruolo puramente di prestigio. Riposati, caro! ci pensiamo noi! distenditi, riprendi il fiato! che noi prendiamo le poltrone. Parla alla televisione (noi abbiamo altro da fare). Era arrivata la loro ora: un ritorno strisciante, che vedeva il vecchio rinnovare il nuovo».

Come osserva Petrovic, ma qui in quanto ventriloquo di Makanin, «in Russia, come da nessuna altra parte, ogni nuova idea finisce per trasformarsi nel suo contrario. Noi siamo i martiri non delle idee, ma delle loro sempre mutevoli interpretazioni». E, come aggiunge Emmanuel Carrère nella puntuale prefazione, ciò che Makanin racconta è l'esatto rovesciamento dello Zeitgeist, ovvero dello Spirito del tempo, che negli anni finali dell'Urss aveva irriso la sua cultura e la sua ideologia ufficiali, facendo dell'Urss underground, quella clandestina, umiliata e offesa e però intimamente libera, l'unica vera e degna di esistere... E invece, «alla caduta del comunismo i valori si sono nuovamente invertiti. Nel caos degli anni di El'cin il denaro ha preso il potere, la legge della giungla, il disprezzo dei poveri, il saccheggio sfrenato del Paese hanno consentito di edificare fortune immense. A ben pensarci, quella decina d'anni è stata l'unica esperienza democratica che la Russia abbia mai conosciuto e ne risulta che in quella realtà la parola democrazia assume unicamente connotazioni negative: miseria e banditismo».

Non si è insomma salvata nemmeno quella che Petrovic definiva «onesta clandestinità». Erano stati gli under a preservare sino ad allora la cultura russa, lo status intellettuale che non era sancito da un premio Lenin o dall'appartenenza alla Unione degli scrittori, ma proprio dalla sua clandestinità, dalla sua precarietà, dalla sua fedeltà indomita nel potere della parola, dei manoscritti che non bruciano... «Gli under - chiosa Carrère - sono diventati dei loser.

Cacciati dal caldo delle portinerie e delle cucine sono tutti affogati nelle gelide acque della speculazione egoista». Se si vuole capire il successo e il perché della Russia autocratica di Putin è da quella Russia «democratica» di El'cin che si deve partire.

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