Veleno alleato

Il calendario, le coincidenze sorridono a George Bush e rendono per questo ancora più difficile il compito di Massimo D’Alema. Che si è subito impegnato a fondo nella sua nuova carriera di ministro degli Esteri ma cui la prossima tappa dell’itinerario, Washington, si profila piena di ostacoli, inciampi, imbarazzi. In parte insiti nel cambio di governo a Roma, di segno tale che nessuno si aspettava suscitasse particolari entusiasmi negli Stati Uniti ma acuiti da circostanze e coincidenze. A cominciare dall’interlocutore. D’Alema non sarà ricevuto da Bush (e fin qui niente di male, perché i ministri degli Esteri, soprattutto se nuovi, parlano soprattutto con i ministri degli Esteri e, dunque, nel suo caso con Condoleezza Rice) ma il suo debutto non potrà non risentire dell’umore del presidente americano, che nelle ultime settimane e particolarmente negli ultimi giorni è cambiato. Per «colpa» di una piccola raffica di buone notizie che lo rafforzano, dopo un lungo periodo di costante declino, nell’opinione pubblica americana ma anche, altrettanto inevitabilmente, verso l’esterno. Rafforzato vuol dire più fiducioso e quindi meno disposto, o obbligato, a fare concessioni, anche soltanto di umore. E l’umore della Casa Bianca non è fra i migliori nei confronti del nostro ministro degli Esteri ma soprattutto del governo di cui egli è parte e che ha tanto contribuito a mettere in piedi.
E che è molto peggiore di quello che gli americani (ma non solo loro: in quanti italiani si sono già erose la fiducia, la speranza e perfino la tolleranza iniziali?) si attendessero. Non c’è dubbio che alla Casa Bianca e dintorni si guardasse con molta più simpatia e oggi dunque con rimpianto, al governo Berlusconi, che aveva saputo con tenacia scavarsi una nicchia di buona considerazione a Washington in anni in cui fra l’America e l’Europa crescevano la distanza e, se non l’ostilità, perlomeno l’amarezza.
Ma c’era anche chi si aspettava, soprattutto al Dipartimento di Stato, un governo italiano di «centrosinistra» e adesso scoprono che quello che Romano Prodi guida o cui almeno dà il suo nome è un governo tanto di sinistra e così poco di centro. In tanti campi, ma anche e soprattutto in quello che agli americani interessa di più, che ovviamente è la politica estera. Non in sé una sorpresa che Massimo D’Alema arrivi a Washington subito dopo che il governo di cui egli è vicepresidente ha annunciato il ritiro del contingente militare italiano dall’Irak. Questa era una promessa elettorale, anche se non preminente nella propaganda di Prodi e soci e doveva essere mantenuta; proprio come accadde due anni fa in Spagna a Zapatero. Come allora, nessuno può aspettarsi da Bush gratitudine o compiacimento per questo, ma almeno è qualcosa che era da aspettarsi, anche se l’impatto è aggravato da coincidenze di cui D’Alema non ha colpa: è sommamente scomodo per gli americani perdere, anche se questa non è una sorpresa, un alleato proprio nel momento in cui rischiano grosso tentando in Irak una controffensiva dopo almeno due anni in cui sono stati ridotti alla difensiva.
Ma il vero «veleno» non risiede nelle conseguenze pratiche locali bensì nell’atmosfera che il nuovo governo italiano emette. Un gesto che si può considerare obbligato è infatti, tutt’altro che necessariamente, accompagnato da parole e fatti tutt’altro che richiesti. A cominciare dal secco rifiuto di Roma di mandare in Irak, ritirati i militari, una missione civile. La Rice molto probabilmente tornerà a insistere su questo.
Ma soprattutto c’è l’Afghanistan, un terreno di operazioni radicalmente diverso per quanto riguarda impegni, motivazioni e formalità giuridiche. C’era da aspettarsi che il richiamo del nostro contingente militare da Nassirya fosse accompagnato e bilanciato da una intensificazione della nostra presenza a Kabul. Invece una parte del governo Prodi (ministri, sottosegretari, capi deputazione di diversi partiti della maggioranza) solleva invece l’ipotesi di un ritiro anche dall’Afghanistan e le discussioni che fervono a Roma non agevolano la credibilità del ministro degli Esteri. D’Alema non metterà l’America di fronte ad ulteriori fatti compiuti, ma si indebolisce la sua strategia intuibile, che è quella di compensare l’Irak con l’Afghanistan e di allargare così, o meglio diluire, l’oggetto delle sue discussioni con la Rice. Anzi, gli argomenti aggiuntivi rischiano di acuire i prevedibili dissensi. Perfino l’invito, di cui D’Alema si farà portatore, alla chiusura del carcere di Guantanamo.

Richiesta in sé sostenibile, anzi impeccabile; ma che suona ben diversa da parte di un primo ministro fedelissimo come Tony Blair e dal vice primo ministro espressione di una maggioranza parte della quale considera Bush come un uomo «dalle mani sporche di sangue», la cui ala sinistra, uscita rafforzata dalle elezioni, minaccia di tempestare con interrogazioni e voti contrari già dal suo difficile debutto. D’Alema non si aspettava una luna di miele con Condoleezza. Ma i suoi colleghi provvedono a versare nella coppa una dose cospicua e non necessaria di fiele.

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