Il ventre molle dell'Europa che sa accendere il vizio della libertà

Il fascino del capoluogo partenopeo nelle parole di Domenico Rea: «È l'inferno dell'apparente impossibilità di vivere»

di Domenico Rea

Mi sono sempre meravigliato dei giudizi espressi su Napoli da viaggiatori di comodo e, soprattutto, dagli inviati speciali. Arrivano o sbarcano a Napoli, vi rimangono un paio di giorni, facciamo tre e anche quattro e, con la più badiale tranquillità di questo mondo, sputano sentenze, assolvono, condannano; lasciando esterrefatti noialtri che ci viviamo, per magnanimi lombi, da quattromila anni o almeno dal tempo in cui il giovane Nerone, appassionato di canto, per avere un applauso, issava il suo palcoscenico in questo pezzo dell'universo che nacque come metropoli.

Tutto il mio discorso regge sul concetto di metropoli. Napoli, a differenza di Roma, di Firenze, e addirittura di Atene, non fu mai «paese» o «piccola città» o «comune». Napoli fu sempre città sovraffollata. Boccaccio non voleva andarsene da Napoli perché non riusciva a vivere nel comunello fiorentino. Un uomo raffinatissimo (e certamente snob) come Petrarca sa che è importante venire (spingersi fino) a Napoli per farsi incoronare poeta dalla corte angioina. In un certo senso, in Italia, tutto viene dopo Napoli; dopo che Napoli ha consumato una sterminata esperienza del vivere; che ha conosciuto il travaglio e l'imperio delle corti e la tecnica della psicologia spinta fino all'adulazione e al servaggio.

Sir Harold Acton, il grande storico inglese, distingue nettamente la civiltà napoletana da quella romana assai più recente della prima. Quando Roma spunta sui colli fatali, vergine e guerriera, Napoli ha già il ventre molle dell'ultima ambigua filosofia greca. È probabile che da questo momento Napoli esca dalla «storia corrente» ed entri in uno stadio endemico di perniciosa saggezza. Si è già resa conto che il privato vale cento volte il pubblico, il sociale e il politico. Sa che la vita, per ognuno, è un fatto personale. Passata che sarà, non sarà rimpianta, né commemorata da alcuno. E il carpe diem diventerà il Dio di questo universo.

Questa conoscenza dei suoi limiti condurrà avanti il motivo millenario della sua autodistruzione ed autoriproduzione. Lo scempio e il vandalismo costituiranno il suo stile, il suo modo di essere, la sua maniera di protestare. (La leggendaria sporcizia dei napoletani, il popolo più pulito del mondo, è una protesta contro l'incuria dei reggitori della cosa pubblica. In privato, i napoletani, condannati a vivere raso terra, provvisti da madre natura di abbondanti acque, se non fossero stati puliti, dovendo combattere notte e giorno con gli animali striscianti - formiche, topi, lucertole, serpenti, eccetera - sarebbero scomparsi da tempo).

Le cronache napolitane di tutti i tempi sono di una monotonia angosciosa: la sporcizia, l'urbanizzazione forzata, la coabitazione, il contrabbando, la violenza, l'invenzione della vita. Non c'è storico che non parli e vaneggi di queste cose. Nell'Andreuccio da Perugia Boccaccio, fiorentino, dà la prova di aver capito appuntino come stanno le cose. E non sarà di meno l'altro interprete indigeno di questo universo, Giovan Battista Basile. Apparentemente racconta favole, in concreto descrive la terribilità del vivere quaggiù. I camorristi di oggi sono tutti annunciati e enunciati nella favolistica basiliana e dei suoi successori. Non c'è dolcezza, né efferatezza che non siano già contemplate; e, sì, perché questo universo, sempre agitato, in realtà sbatte nella pentola sempre le stesse cose, gli stessi ingredienti, gli stessi risultati, le stesse colossali ingiustizie.

Napoli è affascinante come poche o nessuna altra città del mondo perché in ogni suo pezzo, reperto, campione, si può contemplare il presente, il passato e il futuro. Avendo intuito questa verità uomini come Goethe fino a Dominique Fernandez, Jack Kerouac, Peyrefitte, Wright, l'architetto della casa delle cascate, sostengono che l'unica città europea che sia rimasta «metropoli» è Napoli. Partendo da Posillipo, sul mare, arrivando a Forcella, sulla profonda terraferma, non è che si cambi quartiere o città, si emigra in un altro mondo, fra un'altra popolazione, con abitudini, usi e costumi di segno diverso. Posillipo partecipa alla civiltà del mare. Villanova a quella contadina. Forcella allo asservimento dell'imperio e dei delitti della corte e dei vicerè. Forcella vivrà sempre nel buio e nel puzzo. I villanovesi nei colori e tra i frutti di un orto botanico. Gli uomini di Posillipo, vittime delle razzie turche, sanno per esempio che il cuore e il corpo di una donna possono appartenere a più amanti. A ciò si deve la variabilità delle vicende napoletane. I contadini di Villanova e i popolani di Forcella (e Forcella valga come indicazione simbolica di centinaia di altri raggruppamenti socio-psicologici) rimangono in un mondo chiuso, che si costituirà in faide, e i posillipesi manterranno nel tempo una sorta di dolcezza o di sopportazione di carattere. Fra quelle genti il delitto diverrà una costante; fra queste altre, una extravaganza.

Dire, quindi, Napoli non significa un bel nulla. È d'uopo parlare sempre di molte Napoli, donde il concetto di metropoli, di straordinaria diversità nell'unità; una unità unica. Tutte le città d'Italia hanno impinguato i versanti dell'emigrazione, fuorché Napoli. La metropoli dell'inferno, il centro terrestre dell'apparente impossibilità di vivere, si è svenata soltanto di poche gocce. Miseri, miserabili, meschini, privati di tutto, talvolta persino del pane, tal'altra dell'aria, all'atto di partire sono rimasti a casa, nel ventre molle della grande civiltà del vivere.

E che cosa è questa civiltà? La libertà? È un concetto fasullo, una furba promessa, roba da politicanti. La libertà è l'anarchia: è seguire il proprio istinto più che il proprio spirito. Tutta Italia potrebbe diventare comunista, ossia perdere il proprio nome e cognome, non Napoli. Mussolini, l'inventore della massa, questo lo capì subito; e, nel fatto, murò Napoli. Non perse tempo a chiedere la tessera all'uomo del vicolo o all'uomo del basso. L'uomo del basso e l'uomo del vicolo (dico uomo per dire anche donna) firma tutto perché sa che, dopo, rispunta il suo indifferibile problema, quello del suo io, del suo sistema, del suo modo particolarissimo di vivere la vita.

Per questo lungo ordine di motivi e per altri che non è possibile denunziare in questo breve scritto Napoli non riesce a uniformarsi al plafond universale. Non la si riesce ad acchiappare. Sfugge da tutte le parti. Ed è cosciente del suo stato. Il suo costante lavoro è di scavarsi una sua, una «suissima» vita, indipendente da tutto il resto, ossia dipendente soltanto dalla propria libido. Una civiltà originale come quella giapponese si è in gran parte uniformata al consumismo. Napoli lo ha preso con le molle. Si è servita di alcune sue parti; molte altre le ha rifiutate. Tutte le città italiane (non posso dire di quelle europee perché le conosco poco) il venerdì sera si svuotano. Neve, nebbia o pioggia, i milanesi vanno via. Napoli si riempie. Si concentra. S'infittisce fino alla paralisi. E non si dica la sciocchezza del vantaggio del mare o, peggio, perché non si lavora. (L'Olivetti ha subito gli stessi incrementi di produzione che a Ivrea e altrettanto va detto dell'Alfa Romeo-Alfa Sud o della Barilla-Voiello). Si resta a Napoli perché i napoletani nella collettivizzazione universale, conservano un loro precipuo comportamento; perché non provano un rigetto del loro prossimo. Lo accettano, ne sopportano e ne comprendono i difetti. È per questo motivo che la notte napoletana è la più fulgida notte del mondo. Alle tre del mattino si può invitare un amico a gustare un piatto di spaghetti con pomodoro, triglie in cartoccio e babà flambé. In molti luoghi d'Europa si vocifera dì libertà sessuale: ma soltanto a Napoli, da illo tempore una creatura di qualsiasi sesso può coltivare i propri versanti. Il vizio della libertà a una certa ora della notte si respira nell'aria.

Certo, rimane una città difficile, per palati dal gusto forte. Possono capitare tante cose, tante avventure, tanti guai, tante invenzioni del vivere. La ragione è semplice. Non c'è mai stata una borghesia a dettare le leggi dell'ipocrisia. La città è rimasta sostanzialmente plebea, incline al «dialettale» al versante greco, a quello liberatorio degli istinti; più che mai socratica e legata al superiore ordine divino (umile, semplice) che a quello storico-politico: potere e violenza. Una città con ancora le carni e le piaghe aperte, dolenti e alla ricerca di una giustizia più vicina al Diavolo che a Dio.

È la capitale dell'unica filosofia che ha prodotto l'Italia e, incredibilmente, così apparentemente passiva - ma solo apparentemente - della prima ribellione europea - quella di Masaniello - della prima repubblica libera - quella partenopea - della prima ribellione risorgimentale - quella del 1820, in partenza da Nola -.

E, nonostante gli scempi, rimane di gran lunga la più bella città del mondo. Lo so che ciascuno preferisce e predilige le normali bellezze del proprio comunello.

Ma ove mai si abbia vaghezza di avvicinarsi al respiro degli dei, nonostante l'ecatombe sacrificale dei camorristi, si venga a Napoli. Ne vale la pena e la spesa. Tempo sprecato recarsi a Tokio o a Copacabana. Si prenda nota dei luoghi che cito...

Ieri sera sono andato a cena da un vecchio amico al Parco Grifeo (si prenda nota!) a ridosso del Corso Vittorio Emanuele costruito da Carlo III di Borbone. Non mi fossi mai affacciato sul balcone della sua casa largo e aereo come la tolda di una nave omerica.

Da Punta della Campanella a Capo Miseno era un cerchio perfetto nella geometrica, spietata luce della luna.

Ogni punto era un riferimento archeo-storico-psicologico, un «a capo del mito»: il Vesuvio, Pompei, la costa di Stabia, il promontorio di Sorrento, Capri e il Salto di Tiberio, lo sperone di Ischia, la prua della virgiliana Posillipo e il vasto mare a cerchi concentrici come l'eco, frastagliato dalle luci delle lampare...

Ora mi spiego perché Giacomo Leopardi dettò gli ultimi sei versi del divino (e mai aggettivo fu più effettuale) Tramonto della luna da un giardino del Golfo, dopo avere amato e odiato Napoli.

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