Mercoledì 24 novembre arriva in libreria Il Vittorioso (Marsilio, pagg. 264, euro 17,50), una biografia-intervista di Vittorio Feltri, scritta da Stefano Lorenzetto, che ha per sottotitolo Confessioni del direttore che ha inventato il gioco delle copie. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo la prima parte dell’introduzione di Lorenzetto.
di Stefano Lorenzetto
La sera che lasciò la direzione del Giornale , 6 dicembre 1997, mi regalò una voluminosa cartellina di pelle nera, chiusa da una cerniera lampo come le custodie dei breviari. L’aveva pescata sul fondo di qualche cassetto della scrivania appena svuotata. «Aprila», mi disse.
Eseguii e come per incanto si materializzò fra le mie mani un borsone da viaggio di plastica floscia, che fino a quel momento era rimasto piegato in otto su se stesso. «Ne avrai bisogno», soggiunse col sorriso beffardo che di solito gli illumina il volto quando la battuta calza a pennello. A Renato Farina mise in mano un altro cadeau mai spacchettato: una penna. Mi parve una predestinazione: Renato continuerà a scrivere, tu dovrai far fagotto. Ci rimasi un po’ male: in fin dei conti ero ancora, sia pure per qualche minuto, il suo vicedirettore vicario. Mi abbracciò. Io avevo le lacrime agli occhi. Lui fingeva di non averle. Vittorio Feltri ancora una volta vedeva giusto.Di lì a sette mesi avrei avuto anch’io bisogno di qualche scatolone, più che di un borsone da viaggio, per sgomberare l’ufficio. Ciò che non poteva sapere, è che quello stesso 6 dicembre, intorno alle 18, mi ero incontrato al bar Zucca in Galleria col suo successore designato, Maurizio Belpietro, per chiedergli un unico favore: mi dimetto, voglio tornare a casa mia, lasciami andare. La vita è strana. A dispetto di quel borsone da viaggio, in realtà sono l’unico che è sempre rimasto fermo nello stesso posto, ad aspettare che i due, Feltri e Belpietro, si decidessero a tornare sui loro passi, uno da Libero , l’altro dal Tempo e poi dal Quotidiano Nazionale . Ho rivisto il mio direttore dopo 12 anni: io stavo ancora al Giornale , a scrivere; lui ci rientrava, a dirigerlo. Era un altro uomo.Non nell’aspetto:stessa ricercata eleganza, stessa cura maniacale del dettaglio, stesso stoicismo nel tenere la giacca abbottonata anche in piena estate sotto il pergolato della trattoria Aurora di Milano. Non nell’eloquio: sempre vivido, sempre sintetico, sempre trasparente e senza sottintesi, proprio come i suoi editoriali. No, era un altro uomo nell’animo. Più pacato, più sereno. Dovrei dire più buono, ecco, anche se cattivo non lo è mai stato, non potrà mai esserlo, e non credo proprio che dipenda dal fatto che è un Cancro come me. Mi chiese subito di mia moglie. Non l’aveva mai fatto in precedenza.
Sapeva che pochi giorni prima s’era recisa due tendini della gamba sinistra in un incidente. S’informòper dieci minuti buoni sulle sue condizioni di salute, mi chiese i dettagli dell’intervento chirurgico, si mostrò sollevato nell’apprendere che avrebbe ripreso a camminare. Poi volle sapere dei miei due figli: nomi, età, studi. Al momento del congedo mi turbò: «Salutami tanto tua moglie. Ho un debito di maleducazione nei suoi confronti». Si ricordava! Non solo degli anni in cui erano caduti i governi, dei ministri nei vari gabinetti della Repubblica, dei risultati elettorali, dei segretari di partito, delle bicamerali, delle congiure di Palazzo, dei ribaltoni, degli inciuci, degli scandali, degli arresti, ché per queste faccende ha sempre avuto e ha tuttora una memoria ferruginosa, strabiliante. No, si ricordava della mia famiglia, di una moglie arrivata malvolentieri a Milano con una bimba di 4 anni per mano e un figlio di 7 mesi nella pancia; di una nascita che di lì a poco non era stata salutata sulle pagine del Giornale col consueto trafiletto “Fiocco azzurro” che è dovuto financo ai redattori ordinari, quindi figurarsi ai vicedirettori; di una lettera che questa moglie, fiaccata dal parto e dalla permanenza in una città ostile, aveva scritto in dolente solitudine al direttore che aveva l’unico ma imperdonabile torto di sequestrare tutti i giorni un padre di famiglia dalle 9 di mattina alle 11 di sera. Una lettera garbata, rispettosa, nella quale lamentava semplicemente la mancata pubblicazione della notiziola sulla nascita del secondogenito, un piccolo gesto di umanità che - mi sono rimaste impresse solo queste parole finali «avrebbe fatto bene a entrambi», a lei e al marito. Una lettera di quelle che i direttori sono abituati a ricevere dai lettori delusi e che solo per questo meritano almeno due righe di risposta in corsivo sul giornale. Invece quella lettera niente, come se non fosse mai stata scritta, come se il portalettere non l’avesse mai recapitata. Talché il neopapà s’era risolto, 12 mesi dopo, a far pubblicare sul Giornale , il 7 febbraio, un’inserzione a pagamento col seguente testo: «Questa sì è una bella notizia. Giuseppe è con noi da un anno ». A corredo, un disegno del nucleo familiare che la sorellina aveva eseguito nell’asilo di via Don Gnocchi. Ne era nato un piccolo giallo editoriale, che il settimanale Donna Moderna aveva cercato invano di chiarire col titolo «Caccia a un tenero papà». E ora Vittorio Feltri, in modo diretto, che è poi l’unico suo modo, chiedeva scusa di quella mancata risposta, parlava di un «debito di maleducazione ». Che gli era mai successo? Il presente libro-intervista è nato in quell’istante. Perché a me, sapete, è solo questo che interessa dell’interlocutore che ho davanti: capire che cosa gli agita l’anima, più di che cosa gli passa per la testa. Il cuore dell’uomo è un posto libero: puoi edificarci un paradiso o scavarci un inferno, come recita un proverbio yiddish. Ho sempre avuto un’ambizione: di sondarne i recessi. L’unica abilità che mi riconosca. Credevo – forse l’abbiamo creduto un po’ tutti –che questo Feltri fosse un mezzo demonio, a suo agio tra le fiamme dell’inferno e sempre pronto a infilzare col forcone il suo prossimo. A un certo punto mia moglie stava quasi per convincersi, come Mary Ann Lomax, l’infelice protagonista del romanzo L’avvocato del diavolo , che fosse la controfigura del luciferino John Milton. Ricorderete, ci hanno fatto anche un film: Milton, famoso principe del foro, recluta in Florida il giovane marito della donna, Kevin, un promettente avvocato di provincia, e se lo porta a New York a lavorare nel proprio blasonato studio legale, offrendogli in cambio un ricco stipendio, un lussuosissimo appartamento e una garanzia di celebrità. «Vanità, decisamente il mio peccato preferito», ammicca un Milton trasfigurato, mentre nel finale del film tratto dal romanzo assume (guarda caso) le sembianze di un giornalista. «Vanità, tutta vanità», aveva commentato (guarda caso) mia madre alla notizia che Feltri mi voleva a Milano come suo vicario.
Coincidenze, indizi di questo genere. Che però parvero anche a me assumere una qualche sconvolgente consistenza quando, nel fastoso appartamento di via dei Foscari, affacciato sul galoppatoio di San Siro, zona prediletta dai calciatori di Milan e Inter, un attico di 300 metri quadrati con soprastante giardino pensile e piscina, una mattina d’estate all’alba mia moglie e io fummo svegliati da un sordo ronzio. Accendemmo la luce: nella camera s’era materializzato uno sciame di calabroni. Da dove accidenti erano entrati se tutte le finestre della casa, dotata di impianto centralizzato per l’aria condizionata,erano ermeticamente sigillate? Ne stecchivi due, a colpi di giornale arrotolato, e poco dopo ce n’erano quattro, ne scacciavi quattro e diventavano otto. Una scena da poltergeist. Che si ripeté per almeno una settimana. Fino a quando, dopo un estenuante appostamento, non vidi uno dei grossi insetti bruno rossicci affiorare come per incanto dalla sommità della boiserie che foderava fino al soffitto le pareti della camera. Salito su una scala, scoprii che la cornice di legno era staccata dal muro sottostante, lasciato al grezzo: i calabroni avevano fatto il loro nido nell’intercapedine di mattoni, comunicante col sottotetto e quindi con l’esterno. La conferma che a Milano le case per miliardari sono tutta esteriorità e poca sostanza. E, per mia moglie, che il direttore del Giornale non era né Milton né il Signore degli Imenotteri. Per quanto mi sforzi di rovistare nella mia mente, non riesco a ricostruire in che anno cominciai a leggere Vittorio Feltri. È come se lo avessi sempre letto. Posso dire la stessa cosa soltanto di Indro Montanelli e di Enzo Biagi, con l’unica differenza che al secondo ho voluto molto più bene che al primo, e dunque ci restai malissimo quando mi raggelò con una frase che equivaleva a un epitaffio: «Feltri ha rubato Il Giornale a Indro». Io ero ingenuamente rimasto al Feltri suo collaboratore nei programmi tv per la Rai, e tra i più coccolati.
Invece la sola circostanza che il suo ex pupillo fosse entrato a far parte della famiglia del Cavaliere era bastata a fargli capovolgere il giudizio. In quell’occasione non ebbi il coraggio di rivelare a Biagi che Feltri mi aveva assunto al Giornale .- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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