Il vero Pinocchio è lo scimmiottino Pipì

Dopo la morale "corretta" delle avventure del burattino, l'autore cambiò registro

Il vero Pinocchio è lo scimmiottino Pipì

Per i ragazzini italiani nati tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta, esistevano due libri di sottotesto, oltre che quasi «di testo», visto quanto erano caldeggiati dagli insegnanti, imbeccati dal ministero dell'Istruzione: Pinocchio e Cuore, in ordine cronologico, classe 1881 e classe 1886. Con una differenza formale e sostanziale tra i due: mentre in Cuore quei ragazzini si trovavano di fronte altri ragazzini in carne e ossa come loro, e per di più nel loro stesso contesto, quello della scuola, obbligatoria dalla legge Coppino del 1877, in Pinocchio dovevano vedersela con un burattino-proto-bambino in legno, manufatto di quello sciamano fiorentino chiamato mastro Geppetto. Ora, mentre un burattino, per quanto senziente e disobbediente, resta pur sempre un giocattolo, i Derossi, i Franti, i Garrone e compagnia appellando sono dei compagni, con uguale dignità rispetto al piccolo lettore. Niente di strano, quindi, se i ragazzini italiani ante litteram meno social e meno inclusivi, preferissero Pinocchio ai loro omologhi di fine Ottocento, ovvero a quei tipi che ritrovavano nel vicino di banco, nel secchione, nell'asino di turno. Tuttavia, Pinocchio era un giocattolo evoluto, per fare soltanto due esempi, sia rispetto alle marionette che la nonna acquistava al mercato rionale insieme al suo nipotino, dal Natale precedente promosso direttore artistico di un teatrino portatile con tanto di sipario e quinte intercambiabili, e sia rispetto alla miniatura della capsula «Gemini», il progetto spaziale statunitense da non confondere con l'attuale app che apre la porta all'Intelligenza artificiale. Pinocchio, insomma, era un personaggio, come i ragazzi della via Pál o Sandokan, non un modello (negativo o positivo), non uno strumento educativo, come invece erano le creature di Edmondo De Amicis.

Anche Carlo Lorenzini alias Collodi (ma non nasce a Collodi, bensì a Firenze, il 24 novembre 1826) è un personaggio, e Renato Bertacchini ce lo squaderna a tutto tondo nel libro conclusivo della sua ricca bibliografia collodiana: Vita e opere di Carlo Collodi. Il «padre» di Pinocchio (proposto da Luni Editrice dopo l'edizione Camunia del 1993, pagg. 297, euro 24). Dagli 11 ai 16 anni studia in seminario, nel '43 prende lezioni di retorica e filosofia e fa ingresso nel mondo del lavoro come commesso alla fiorentina Libreria Piatti. Divenuto giornalista, intinge la sua piuma d'oca colta e caustica da «appendicista» per decine di testate («Si nasce poeti, ma non c'è bisogno di nascere giornalisti. Vero è che una volta giornalisti, si muore giornalisti»), senza mai diventare un pennivendolo («Un novizio che voglia dedicarsi all'arte del giornalismo, bisogna prima di tutto che interroghi se stesso, per conoscere se debba arruolarsi tra i fantaccini ministeriali, o piuttosto nei Cavalleggeri dell'Opposizione»). Antifemminista (quelle signore le considera o «Socialiste» o «Comuniste», comunque deleterie per la società), sebbene non sia un baciapile nel '45 ottiene la licenza ecclesiastica per la lettura dei libri all'indice. Si fa da volontario le guerre d'indipendenza del '48, non vedendo l'ora di «sverginare i fucili», e del '59. La terza no, perché nel '66 la sua Firenze è da pochi mesi capitale, quindi regno degli «scannocrati», e ne prova disgusto. Partito mazziniano e divenuto fervente annessionista, il risultato dell'Italia unita non gli va a genio, al punto da indirizzare al presidente del Consiglio dei Ministri Marco Minghetti, il 30 gennaio '76, dalle colonne del Fanfulla, una polemicissima lettera intitolata Delenda Toscana: ce l'avete con noi toscani accusandoci di posizione dominante sulle ferrovie? bene, cancellateci dalla cartina del Regno d'Italia.

L'anno prima c'era stata la svolta decisiva per la carriera di Collodi: i «giovani israeliti» (così li chiama Bertacchini) Alessandro e Felice Paggi della «Libreria editrice Felice Paggi», gli avevano affidato la traduzione delle più famose fiabe francesi. Perrault, madame d'Aulnoy e madame de Beaumont vengono italianizzati e moraleggiati nel volume I racconti delle fate (1876). E Collodi in breve diventa l'autore di punta della casa. Seguono infatti Giannettino nel '77 e Minuzzolo nel '78, anno in cui l'impegno nella stesura di opere pedagogiche e scolastiche gli vale la nomina a Cavaliere della Corona d'Italia, una medaglia che il suo spirito libertario non apprezza molto, sentendosi «imbrancato fra gli educatori». Tuttavia, cavalca il successo, ma a modo suo, con la «bambinata» Pinocchio di cui le prime pagine vengono inviate all'amico Guido Biagi che lavora al Giornale per i Bambini edito dall'imprenditore e finanziere ungherese Ernesto Emanuele Oblieght, ed escono il 7 luglio dell'81. Tuttavia, di Pinocchio qui interessa la fine, addì 25 gennaio 1883: «Com'ero buffo, quand'ero un burattino! E come son contento di esser diventato un ragazzino perbene...». Qualche collodiano di stretta osservanza dubita dell'autenticità di questa chiusa, attribuendola al Biagi. Bertacchini ricostruisce il tutto arrivando in sostanza alla conclusione più triste: Collodi voleva farla finita, e si piegò all'happy end del cambio di specie, da burattino a ragazzino.

Ma poi si vendicò con un altro cambio di specie. Ed ecco, in tredici puntate, dal 16 agosto '83 al 31 dicembre '85, sempre sul Giornale per i Bambini, Pipì o lo scimmiottino color di rosa. Se Pinocchio è un oggetto che evolve fino alla condizione di umano, Pipì (quindi doppia «p», un Pinocchio alla seconda...) è un animale ben contento di esserlo, quantunque il suo padroncino «quand'era piccolo faceva il burattino». Il padre di Pipì lo ammonisce: «Bada Pipì! A forza di scimmiottare gli uomini, un giorno o l'altro diventerai un uomo anche tu. Allora te ne pentirai amaramente, ma sarà troppo tardi». Infatti, prima di partire per un lungo viaggio con il suo amico umano, lo scimmiottino si guarda allo specchio ed esclama, con una frase uguale e contraria a quella conclusiva di Pinocchio: «Oh come sono brutto! Non sono più io! Non sono più Pipì! Mi hanno vestito da uomo...

E sono diventato un mostro da far paura».

Ovviamente a scuola, oltre mezzo secolo fa, nessuno ci parlò di Pipì. E a tutt'oggi non lo si trova nella voce di Wikipedia dedicata al suo papà Carlo. Peccato, perché forse Pipì è il vero Pinocchio.

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