A volte per dire cose importanti bastano poche parole. È il caso di quello che è successo, ieri, a Roma, e che ha visto come protagonista, Roberto Maroni, ministro del Welfare.
Durante la tradizionale conferenza stampa di fine anno del ministero ha detto: «Emanerò a breve una circolare per fissare sanzioni per i lavoratori in mobilità che rifiutano offerte di lavoro. Potranno decidere di rifiutarle, ma perderanno il sussidio di disoccupazione».
Perché questo intento è così importante? Perché è tanto importante da indicare, addirittura, una filosofia sottostante alle politiche sociali radicalmente alternativa a quella che ha per lungo tempo caratterizzato interventi ingiusti e sbagliati?
La risposta è racchiusa nel cuore di questo provvedimento. Non si aiuta il lavoratore creando una sorta di «riserva indiana», protetta, lontana dal mercato del lavoro, in alcuni casi quasi a vita, ma si opera perché il lavoratore rientri al più presto possibile nel mondo del lavoro. Si cambia, cioè, alla radice l'obiettivo delle politiche sociali (soprattutto relative ai lavoratori, appunto): esso non deve essere più la protezione dal mercato del lavoro ma il reinserimento veloce in quel mercato.
Del resto anche la legge Biagi, e tutto quanto fatto dal governo in questa materia, si è mosso in questa direzione. Solo per citare un esempio - ma molto significativo - la «privatizzazione» e il conseguente snellimento dei tradizionali uffici di collocamento (tanto macchinosi quanto, il più delle volte, inefficienti) va in questa direzione. Rendere più agevole l'incontro tra chi cerca lavoro e chi lo offre, tra lavoratori disoccupati e imprese che hanno bisogno di manodopera. Se il mercato del lavoro diviene più fluido, meno stabile, lo Stato deve predisporre strumenti, reti di protezione per i lavoratori, che non possono essere - ovviamente - somiglianti, neanche alla lontana, a quelli che caratterizzavano i periodi nei quali il mercato era stabile. In quei tempi l'ordinario era, da subito, il lavoro fisso e per sempre. Oggi quello non è più l'ordinario, soprattutto nelle fasi iniziali della vita lavorativa. Può diventarlo, non subito, ma anche no e per un periodo magari prolungato.
In questo caso, e soprattutto nel caso della perdita repentina del posto di lavoro, lo Stato ha il dovere sociale di intervenire per sopperire a quella caduta del reddito dei singoli e delle famiglie che possono anche trovarsi in condizioni di estrema povertà da un giorno all'altro.
Lo Stato fa bene a sostenere quegli individui e quelle famiglie. Non può non farlo perché è uno dei motivi della sua esistenza: quello della creazione di reti sociali di protezione dei più svantaggiati.
Ma anche lo svantaggiato deve fare la sua parte che consiste nell'accettare un lavoro che gli è proposto come alternativa alla disoccupazione. Pena la perdita del sussidio di disoccupazione. Ecco lo spirito del provvedimento annunciato dal ministro Maroni. È esattamente quello che succede in Germania e in Gran Bretagna.
È un bell'esempio di Stato sociale che ha come finalità l'inserimento del maggior numero di cittadini nel mercato del lavoro. È lontano, nello spirito e nella prassi, dalla degenerazione dello Stato sociale che si chiama Stato assistenziale che distribuisce benefici senza preoccuparsi di verificare che quello che distribuisce serva ai cittadini a svolgere una vita attiva, creativa, degna e non protetta e asfittica.
Iniziativa sana perché tende a non creare una società di rammolliti.
Lo fanno anche altrove. Speriamo che anche questo aiuti a raccogliere intorno ad essa un sano e ragionevole consenso. Speriamo.
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