Più del pollo, uccide la paura. In questi giorni di allarmi immotivati e comunque esagerati, essi sì contagiosi, quella dell'influenza aviaria deriva, nella società e nell'economia della comunicazione, dall'informazione incontrollabile che si amplifica in tempo reale abbattendosi sui comportamenti collettivi. Capace non soltanto di precorrere i fatti, ma addirittura di foggiarli con fantasia drammatica. La «percezione» emotiva delle cose e dei rischi può così avere effetti devastanti, oltre che sulla qualità della vita, sull'andamento dell'economia e soprattutto di certi settori produttivi.
Intendiamoci, da altri punti di vista saremmo pronti a tessere l'elogio della paura. È un segnale vitale, come il dolore fisico, per la conservazione della specie: essendo noi tutti, più o meno, lontana progenie di antenati sopravvissuti anche grazie alla paura, se non proprio al senso di responsabilità verso se stessi e gli altri. Ma qui, a quanto ci assicurano gli esperti, è praticamente certo che la psicosi, anzi la fobia per l'influenza aviaria si sta diffondendo a velocità enormemente superiore a quella di qualsiasi rischio che ci si appresta con decisione ad affrontare.
Non c'è dubbio, già la parola pandemia fa impressione a chiunque, noi compresi. Ma l'unica certezza, per ora, è che stiamo mettendo in ginocchio uno dei settori produttivi al vertice nel mondo per qualità e sicurezza alimentare: queste parole del ministro per le Politiche agricole le condividiamo pienamente. È una fobia immotivata, dobbiamo saperlo con assoluta tranquillità.
Per quanto profani, tutti però vediamo che c'è una mobilitazione preventiva senza precedenti né confronti per l'intensificazione della vigilanza su allevamenti e uccelli migratori, centinaia di test, divieti di importazione da Paesi a rischio, mappature degli allevamenti all'aperto, accelerata valutazione dei farmaci antivirali e messa a punto delle strategie per l'approvvigionamento. A livello globale si affronta il problema dell'antivirale attualmente ritenuto più efficace contro il virus dei polli, anche dal punto di vista della licenza di produzione detenuta da una delle massime case farmaceutiche mondiali.
Ma intanto, già una settimana fa i consumi dei nostri prodotti avicoli erano crollati del 50 per cento ed oltre. I prezzi, a loro volta, erano caduti in un mese di poco meno del 30 per cento: per la verità, anche meno del prevedibile, visto il precipizio della domanda. E qui, proprio sul terreno dei prezzi, che in questi casi non mentono, si notava la prima, sconcertante anomalia delle nostre reazioni alle paure diffuse con la velocità della luce. La diminuzione drastica dei prezzi al consumo delle carni di pollo e simili appariva come un fenomeno esclusivamente italiano. Infatti, nel medesimo periodo di tempo, quegli stessi prezzi in Francia e in Germania, anziché diminuire, aumentavano neanche tanto poco: del 5,2 e del 2,9 per cento rispettivamente, in Paesi che non mancano di controlli efficaci, ma di sicuro non possono vantare la qualità e la sicurezza dei nostri prodotti.
Dunque, reazioni ben diverse, per non dire opposte, dei consumatori francesi e tedeschi rispetto a quelli italiani davanti alle stesse cause, «percepite» però in maniera ben diversa e francamente scomposta da noi, senza offesa per nessuno. Apparentemente, il medesimo fattore ha determinato, al di qui e al di là delle Alpi, comportamenti antitetici dei consumatori. Si direbbe un esperimento di laboratorio normalmente impossibile in campo economico e sociale. Siamo emotivi, d'accordo. Ma in realtà la causa oggettiva di reazioni così opposte - dobbiamo supporre che i consumatori francesi e tedeschi conoscano la paura almeno quanto noi, sia pure con... modalità diverse - non è la stessa, perché è evidentemente diversa l'informazione di cui gli stessi consumatori dispongono. La comunicazione è diversa, per quanto riguarda tanto la salute quanto l'economia.
Bisogna dire allora che gli effetti economici della comunicazione pongono un problema molto serio. C'è poco da scherzare sull'influenza dei polli, inutile sorridere ricordando magari la «statistica» di Trilussa, una patetica canzone di Jannacci o il film Pane e cioccolata di Nino Manfredi.
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