Nel 1976 l'allora settantenne Cristopher Isherwood, negli Stati Uniti ormai dallo stesso numero di anni vissuti in patria dalla nascita e fino a quando aveva messo in mezzo l'Oceano per staccarsene, decise di andare alla ricerca di quel sé stesso che era stato, come ragazzo e come scrittore, gli anni d'oro e insieme gli anni tragici fra le due guerre, quando la sua generazione, felicemente scampata per motivi anagrafici dalla Prima guerra mondiale, avvertiva che la seconda non l'avrebbe risparmiata. Per la verità, andandosene dall'Inghilterra proprio in quel 1939 in cui sull'Europa stava per scatenarsi la tempesta, Isherwood riuscì a risparmiarsela, nel nome del pacifismo, dirà come giustificazione non del tutto convincente e che gli tirò addosso il sarcasmo di un suo coetaneo, Evelyn Waugh, ma più profondamente perché lui in Inghilterra si era sempre considerato come in una prigione che non contemplava altra via d'uscita se non l'evasione.
Ironia della sorte, se c'era qualcuno così rappresentativo della quintessenza britannica era proprio Isherwood, famiglia nobile, orfano di un eroe di guerra, il classico cursus honorum che dalle public schools portava a Cambridge, la tipica omosessualità da college, non esibita, ma non per questo non praticata, nessuna reale preoccupazione economica. Prettamente inglese era altresì l'idealizzazione della giovinezza, l'idea di un'età scolastica che non finiva mai e dove tutto aveva il sapore romantico della bohème sferzante e anarchica, eternamente in lotta contro i vecchi, i genitori, i professori, le autorità costituite, e il vecchio mondo che si ostinava a resistere: le istituzioni, la carriera, il matrimonio...
Anche l'omosessualità di Isherwood era di questo genere, l'idea dell'eterno ragazzo sognatore e vagabondo, contrapposto a un universo femminile ritenuto prosaico e razionale, senza slanci né entusiasmi. Curiosamente, era anche un'omosessualità di tipo classista, come del resto egli stesso si sorprenderà a notare parlando di sé in terza persona: «Christopher soffriva di un'inibizione, a quei tempi tutt'altro che inconsueta tra gli omosessuali dell'aristocrazia: a letto non era in grado di lasciarsi andare con un membro della sua classe sociale o un conterraneo. Gli serviva uno straniero appartenente alla classe operaia». Nel suo caso, l'appeal proletario si nutriva di un più o meno inconscio afflato egualitario, l'idea che la differenza di classe venisse in tal modo esorcizzata, anche se quella di censo risultava più difficile da mettere da parte, nonché a non essere utilizzata come moneta di scambio.
Gli anni americani di Isherwood, per quanto ricchi di incontri, di riconoscimenti pubblici e di opere, non sono minimamente paragonabili a quel decennio fra il 1928, in cui esordì all'età di appena ventiquattro anni, e il 1938-39, in cui con Addio a Berlino si chiude il ciclo berlinese e in fondo la sua stagione di scrittore: Leoni e ombre e Mr Norris se ne va sono gli altri titoli che raccontano un'educazione sentimentale e insieme il suo senso di insofferenza nello stare al mondo, la voglia di evadere e però il non sapere ancora bene né per andare dove né in cerca di che cosa.
Christopher e quelli come lui (Adelphi, pagg. 387, euro 22, traduzione di Monica Pareschi) è appunto il resoconto che dal suo esilio americano l'anziano Isherwood si decise a fare di ciò che era stato da giovane, in pratica riempiendo i vuoti biografici di verità, verrebbe da dire, che la trama narrativa aveva più o meno disinvoltamente occultati e/o rimossi. L'interesse del libro non sta ovviamente nel vedere a quali personaggi reali corrispondessero gli alter ego romanzeschi, né fino a dove la finzione si imponesse sulla realtà, a volte in positivo, altre, per un senso di prudenza se non di conformismo, con esiti non sempre felici. Con tutto il rispetto per l'arte di Isherwood, un simile esercizio lascia il tempo che trova, anche perché più che essere uno specchio del suo tempo, la sua narrativa resta uno specchio del suo autore. Per quanto cerchi di scrollarsela di dosso, riconducendola cioè a ciò che essa aveva di funzionale al libro, quella frase di Addio a Berlino, «Io sono una macchina fotografica, completamente passiva, che registra e non pensa», rispecchia perfettamente il modo con cui in quel decennio prima ricordato egli interpretò il suo ruolo di romanziere e di figura pubblica. C'era cioè questo atteggiamento un po' svagato dello spettatore che metteva sullo stesso piano una storia d'amore e lo spettacolo di una guerra. Nel 1937, quando insieme con il suo sodale e amante Wyndam Auden si reca in Cina per un reportage, la vera molla che lo spinge a partire, non è tanto, come egli stesso retrospettivamente osserva, la convinzione che la Cina potesse essere «uno dei campi di battaglia decisivi per le sorti del mondo», ma ciò che all'epoca l'amico Auden gli mette nero su bianco: «Avremo una guerra tutta per noi».
Più che di estetismo, qui si tratta di narcisismo puro e semplice, anche se nel suo caso, come un po' per tutti quelli che possono essere ascritti alla «Auden Generation», si trattava di un narcisismo moralistico, quel moralismo di sinistra che Isherwood subiva, un «abbracciare romanticamente il comunismo in quanto idea di fratellanza universale» e che contemplava da un lato l'essere «compagni di strada» dell'ideologia, e dall'altro, in spregio alla propria casse di provenienza, «l'avventura emozionante di vivere tra i poveri». Questo è il senso del suo stare a Berlino, insieme con il fatto che «per Isherwood Berlino significava Ragazzi».
Questo assommarsi di cose, narcisismo spruzzato di moralismo in salsa marxista, omosessualità come rifiuto dell'etica vittoriana e borghese e in fondo di una certa idea di Inghilterra puritana e ipocritamente snob, fecero sì, come ricorda a distanza di tempo Isherwood e per spiegare come poi tutto finì, che ciò che all'epoca lo vide protagonista fu in fondo l'aver voluto e/o dovuto «recitare una parte, ripetere slogan creati dagli altri. Ormai per me tutto questo non significa più niente: il Fronte Popolare, le linee del Partito, la lotta antifascista. È tutto sacrosanto, immagino, dipende solo da me. Non ne posso più, tutto qua». Nella «Auden Generation», insomma, di cui Isherwood fu un campione più che rappresentativo, una sorta di amoralità adolescenziale, di gregarismo generazionale e di incapacità e/o non volontà di uscire dalle quattro mura scolastiche, diede vita a una miscela infiammabile, un languido estetismo, dove di dottrinario c'era poco o niente, e di militante un che di morboso.
Ecco una pagina di diario del ventiquattrenne Isherwood dell'agosto del 1928. «Domenica in campagna. Che ottuso, gelido orrore. Ti rendi conto di come questa gente sia unita non da una fede politica, ma dalla comune passione per il cricket, il totocalcio, i rotocalchi... Fondamentalmente, Chamberlain e gli altri nostri leader li trovo noiosi quanto Hitler. Queste persone, i loro amici, i loro entusiasmi, le loro opinioni, tutto in loro è un'oscena seccatura. Se potessero farsi fuori gli uni con gli altri in un solo combattimento!». E ancora, in una lettera all'amico Stephen Spender all'indomani della nomina, da parte di Hindenburg, di Hitler come nuovo cancelliere della Germania: «Come avrai visto, abbiamo il nuovo governo, con Charlie Chaplin e Babbo Natale alla guida. Non ho parole».
Se questo è in generale il tono che Isherwood dà alla sua recita, non sorprende che quando alla fine deciderà di accorgersi che quel tono suona falso, si accorgerà anche di un'altra cosa che la sua «tribù», «quelli come noi», gli omosessuali con cui si identificava, non aveva mai voluto ammettere: «In pratica, Stalin concordava con i nazisti nel denunciare l'omosessualità come una forma di tradimento dello Stato. L'unica differenza era che i nazisti lo definivano bolscevismo sessuale e i comunisti perversione fascista».
Gli Stati Uniti
accoglieranno un altro Isherwood, pacificato come uomo. E però erano state quelle ambiguità e quelle contraddizioni a farne un romanziere. E senza di esse e senza la giovinezza, quella felicità di scrittura non sarebbe più tornata.
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