Viaggiare, sì viaggiare

Pensate ai protagonisti dei primi grandi romanzi europei che hanno salutato l’origine della società borghese in cui ancora oggi viviamo. Don Chisciotte, nel romanzo di Cervantes, Robinson Crusoe, in quello di Defoe, Gulliver in quello di Jonathan Swift. Cosa sarebbe stato di loro se a un certo punto della loro esistenza non si fossero messi in viaggio per le strade della Mancia o sugli oceani, spinti dai loro sogni, dai loro deliri, dalle loro necessità, dai loro desideri di vedere e capire il mondo? Semplicemente non sarebbero esistiti. Non sarebbero mai usciti così come li conosciamo dalla fantasia dei loro autori, e non avrebbero mai scaldato con le loro avventure le fantasie di tante generazioni.
Per avere una storia, per essere protagonisti, almeno della propria vita, bisogna viaggiare. Certo, il partire da casa per andare a cercare se stessi porta spesso a incontrare miraggi, difficoltà, pericoli, naufragi. Ma vuol dire alla fine raggiungere una maggiore pienezza di esperienza e una più vasta conoscenza di sé e delle cose. Vuol dire imparare ad affrontare il cammino e a superare ostacoli e scogli, a contare sulle proprie forze e la propria immaginazione, ad aprire gli occhi su realtà lontane e sconosciute, a rispettare quello che è diverso da sé, talvolta ad amarlo. So bene che oggi per moltissimi viaggiare è fare semplicemente i turisti, intruppati e sballottati in giro per il mondo da venditori di pacchetti tutto incluso. Ma anche in questa forma impoverita il viaggiare conserva un inconscio residuo della ricerca delle isole dell’Eden, dell’inseguimento di un sogno, uno degli ultimi rimasti alle masse del mondo globalizzato.
Dopo aver fantasticato a lungo sugli atlanti, i primi libri che ho amato, a otto anni chiesi e ottenni come premio per la promozione in terza elementare un viaggio. Fui portato a Genova, un viaggio breve, ma di incalcolabile valore per me, quasi una iniziazione. A sedici anni, l’estate del ’62, partii da solo per l’Inghilterra, attraversai la Svizzera e la Francia, mi fermai a Parigi, poi a Londra e infine abitai presso una famiglia nel Somerset. Fu l’evento capitale della mia adolescenza. Scopersi tutto, il fascino ambiguo delle metropoli, la differenza tra l’Europa mediterranea e quella del Nord, altre architetture, una campagna dal verde diverso, nuovi costumi sociali, nuovi amici, nuovi cibi, le sigarette, il ballo, il sesso. A settembre, vi giuro, tornai malvolentieri in Liguria. Ai miei padroni di casa lasciai in regalo un fascicoletto che conteneva il diario umoristico, che tenni in inglese, di quei mesi di fuoco. Così anche la mia vocazione a fare lo scrittore si era manifestata, anche se in forme che poi cambiarono e di molto. Capirete dunque quanto devo a quel viaggio, cui ne seguì una serie lunghissima e mai interrotta.
Partire, avere un bagaglio leggero, lasciarsi alle spalle la monotonia dei giorni, andare alla scoperta di qualcosa che non sappiamo neppure bene cos’è, muoverci per il piacere di muoverci, come quando nuotiamo in mare e puntiamo verso l’orizzonte. Per me, ancora oggi, non c’è niente di più bello. Forse non si potrà mai arrivare nel paese che, in quella poesia fatata dal titolo Invito al viaggio, ci fa intravedere Baudelaire: «Là tutto è ordine e bellezza/ lusso, calma, e voluttà».

Ma si potrà seguire la rotta verso la propria Itaca come tanti Ulisse, ricordandoci, come ci suggerisce nei suoi versi e nella sua saggezza Konstantinos Kavafis, che non è raggiungere Itaca che conta, alla fine, ma il viaggio che essa ci ha spinto a compiere, il cammino di una vita in movimento, che sappia godere di anche piccoli, insidiati momenti felici.

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