Viaggio nell'inferno dei lager libici dove gli immigrati vivono in schiavitù

Gli accordi con i trafficanti hanno bloccato mezzo milione di profughi. La gran parte è però in ostaggio degli scafisti. I racconti dei sopravvissuti alle torture e ai ricatti

Fausto Biloslavo

da Tripoli

«Adesso voglio solo tornare a casa, ma poi ripartirò per l'Italia. Anche se mai più attraverso la Libia», giura Mohammed Yakob, 18 anni, sudanese. Ragazzino con i capelli rasta e a torso nudo nella fetida calura del girone dantesco di Triq al Siqqa, il più grande centro di detenzione per migranti di Tripoli. «Invito tutti i giovani del Sudan a non partire pensando di passare per la Libia - aggiunge Yakob -. Questo paese per i migranti è un inferno, un incubo di violenze e vessazioni». La sua storia è comune a tutti i dannati, un migliaio, detenuti dentro una grande gabbia composta da luridi cameroni senza aria, dove si dorme buttati per terra in mezzo a pulci e topi. «Sono partito l'aprile dello scorso anno e a ogni tappa i trafficanti ci picchiavano chiudendoci come bestie in posti che avrebbero potuto contenere un terzo di noi - racconta il giovane - Poi ci hanno infilato in un camion frigorifero per farci arrivare a Tripoli. Sulla costa, a Sabrata, siamo stati imbarcati su un gommone con i mitra puntati nel caso qualcuno avesse paura di partire con il rischio di affogare». In 15 sono morti annegati prima che il gommone alla deriva fosse intercettato e soccorso dalla Guardia costiera libica, addestrata dall'Italia, che ha riportato i migranti a terra. «Chi aveva tremila dinari (circa 300 euro) pagava le guardie e veniva lasciato andare - denuncia Yakob -. Io ero senza soldi e mi hanno portato al centro di detenzione».

Uno dei dannati nella penombra di una stanza puzzolente mostra delle cicatrici sulle braccia e sussurra: «Guarda cosa mi hanno fatto i libici. Questa è tortura». Le guardie del ministero dell'Interno non sono angeli e si rendono conto delle condizioni inumane nei centri, ma il budget del governo è talmente limitato che pure loro ricevono la paga a singhiozzo.

All'ingresso del camerone, dove vivono le donne con un neonato partorito dietro le sbarre, qualcuno ha scritto a mano la frase «Chi entra non perda la speranza», che ricorda, al contrario, quella all'ingresso dell'inferno di Dante. Le disgraziate vengono illuse, come Gwase, 25 anni del Gambia, intercettata in mare e appena trasferita al centro di detenzione: «Mi hanno raccontato che in Italia ci sono privilegi per i rifugiati. Per questo sono partita».

All'imbarco sui gommoni i trafficanti garantiscono «che le navi italiane verranno a prenderci», racconta Jabel Collins, 28 anni del Ghana. Il migrante è ancora sporco di sabbia e in testa ha una striscia verde di vernice fluorescente: «Serviva come garanzia del pagamento per imbarcarsi sul gommone con il buio».

In agosto, rispetto allo stesso mese del 2016, gli arrivi in Italia sono crollati dell'85%, ma quest'anno sono sbarcati quasi centomila migranti. Gli hub dei barconi come Sabrata sono fermi grazie a un accordo con personaggi come «lo zio», al secolo Ahmed Al Dabbashi, potente capo clan locale. A lui rispondono le due milizie più forti della zona, compresa la Brigata 48, che garantisce pure la sicurezza esterna dell'impianto Eni di Mellita. «Prima proteggevano i trafficanti, che spesso sono membri dello stesso clan, grazie a un pizzo minimo di diecimila dinari a gommone (circa mille euro) - spiega una fonte locale -. Adesso si sono convertiti grazie a un accordo con gli italiani gestito dal governo di Tripoli e fermano i migranti». Oltre a mezzi e soldi Al Dabbashi ha chiesto in cambio l'amnistia per lui e i suoi uomini. Nella cittadina costiera della Tripolitania operava anche il misterioso Mr. Pow, un nigeriano specializzato nella tratta di giovani donne dirette in Italia, che in gran parte finiscono sul mercato della prostituzione.

Cento chilometri a sud est di Sabrata sorge il più grande centro di detenzione libico di Garyan. Una sfilza di capannoni-celle, in mezzo al nulla, costruiti dagli italiani ancora ai tempi del colonnello Gheddafi. Un nugolo di braccia nere si sporge attraverso le sbarre dei portoni d'ingresso chiusi con grossi lucchetti. Tutti gridano che vogliono tornare a casa e sventolano i fogliettini bianchi con i numeri di registrazione per il rimpatrio. Il centro «ospita» 1.174 migranti, in gran parte provenienti dall'Africa nera. L'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), quando va bene riesce a organizzare due voli di rimpatrio alla settimana. A causa di budget e personale limitati ha rimandato a casa, fino ad agosto, seimila persone, ma ce ne sono ancora settemila nei centri di detenzione. «È terribile qui soffriamo non c'è neppure abbastanza cibo da mangiare Supplichiamo le Nazioni Unite di aiutarci, di farci tornare ai nostri paesi», implora un diciottenne della Costa d'Avorio.

Il colonnello Bahlul Shanana, che comanda il centro di Garyan, accusa Roma e Bruxelles di parlare tanto, ma agire poco. «In Europa vi preoccupate dei diritti degli animali e in Libia abbandonate questa gente in condizioni terribili. Da soli non riusciamo neppure a sfamarli», sbotta l'ufficiale.

I migranti del Bangladesh raccontano di avere pagato seimila euro per arrivare in aereo via Dubai, Turchia o Sudan atterrando all'aeroporto di Mittiga a Tripoli con un falso permesso di soggiorno. I poliziotti libici puntano il dito contro la sede diplomatica del Bangladesh dove ci sarebbero funzionari che agevolano la pratica. Lo scorso anno è stato arrestato un intermediario eritreo, che usava come «ufficio» la caffetteria della sua ambasciata a Tripoli. Il «mediatore» faceva parte della rete dell'etiope Ermias Ghermay, trafficante super ricercato dalla procura di Palermo.

Il vero problema è l'imbottigliamento che si è creato in Libia con circa mezzo milione di migranti in mano ai trafficanti o che lavorano come schiavi, in attesa che i barconi ripartano per l'Italia.

Su Facebook è stato scoperto in giugno un orribile video di 260 migranti somali ed etiopi torturati per costringere i parenti a pagare più soldi per il viaggio. «Mi hanno rotto i denti e una mano - si dispera un giovane ostaggio -. Sono qui da 11 mesi e vogliono ottomila dollari per lasciarmi andare». I video vengono inviati via Whatsapp sui cellulari dei familiari.

L'Oim ha denunciato addirittura l'esistenza di mercati degli schiavi nel sud del paese e nel confinante Niger. «I migranti sub sahariani vengono venduti e comprati dai libici» sostiene l'agenzia dell'Onu. Gli uomini sono costretti ai lavori forzati e le donne diventano schiave del sesso fino a quando non arrivano i soldi dalle loro famiglie per «riscattarli». Chi non riesce a pagare viene ucciso o bruciato vivo per dare un esempio, come è accaduto questa estate a due uomini e a una donna a Bani Walid.

«Bisogna fermare il flusso controllando la frontiera meridionale, che adesso è un groviera - spiega il colonnello Shanana -. Altrimenti la Libia continuerà a riempirsi di queste masse umane».

L'Italia ha chiesto all'Unione europea di riesumare un progetto di Finmeccanica di sorveglianza elettronica del confine con sensori e telecamere per fermare il traffico realizzato poco prima della rivolta che ha abbattutto Gheddafi. Nel frattempo i dannati di Garyan urlano da dietro le sbarre «libertà, libertà» di tornare in patria sperando che dopo l'inferno libico non ritentino il viaggio per l'Italia.

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